La Letteratura
Seguendo il tema
letterario con l'ultimo modello analizzato si fa in modo di trovare
il «sistema delle letterature d'Europa», fatto di entità nazionali
(e regionali) ben distinte, spesso rivali tra loro. È un'inimicizia
produttiva, senza la quale sarebbero tutte più insipide ed è un
bel modo per chiamare in causa la “concorrenza” che potrebbe
essere stata tanto economica quanto culturale; anche se penso che
fosse più una concorrenza culturale, volta a dominare e influenzare
gli altri Stati. Senza, il tono dell'insieme sarebbe stato più
smorto. Ma la diversità non diventa mai autosufficienza, o ignoranza
reciproca: in Europa non ci sono deserti, né oceani o distanze
smisurate a irrigidire per secoli i tratti di una civiltà. Lo spazio
stretto dell'Europa impone a ogni cultura di interagire con le altre:
dà loro un destino comune, intessuto di gerarchie e rapporti di
forza.
E qui possiamo
anche pensare alle caratteristiche demografiche e geografiche del
continente, della “penisola sub-asiatica” che però, in quella
proporzionale piccolezza ha sempre contenuto una popolazione elevata,
ma soprattutto “concentrata” in un territorio differente per
clima, paesaggi e molte altre cose producendo policentrismo.
Poche cose dànno
l'idea di un'Europa policentrica come la genesi della grande tragedia
barocca. A metà Cinquecento, a dire il vero, le cose stanno in
tutt'altro modo. Le tragedie erano scritte in latino su ben noti
argomenti biblici, ottimo esempio di diffusa unità, nel tempo e
nello spazio del dramma europeo. Per la tragedia colta, il modello
ovunque è Seneca, e le tradizioni medievali, che poggiano su un
analogo fondo di religiosità popolare, si assomigliano un po' tutte.
Comune a tutta l'Europa è infine anche l'eroe tragico adeguato ai
tempi (il sovrano assoluto), e la memorable Scene, come la
chiamerà Andrew Marwell, di una Corte che si macchia di sangue.
Attraverso la
letteratura e la rappresentazione teatrale, sorge una nuova figura
centrale, un tipo d'eroe e quindi un nuovo protagonista sociale
che porta con sé uno strappo rispetto al passato: il sovrano,
che si vuole “ab-solutus”, cioè sciolto, libero dai vincoli
etico-politici del passato feudale, il che significa come rispetto a
tale passato c'è stata una dissoluzione delle vecchie gerarchie di
vasta scala, e la nascita di nuovi rapporti di forza che iniziarono a
incidere nella sensibilità dei tempi.
Il sovrano assoluto
non trae più la sua legittimità dal sottomettersi a una tradizione
immutabile, ma da quella che Hegel chiamerà «autodeterminazione»:
la possibilità di decidere liberamente e porsi così come nuova
origine del corso storico. Nella tragedia barocca, il fulcro delle
vicende saranno proprio le decisioni del principe: autonome, spesso
oscure, e quasi sempre ingiuste che diverranno lo specchio catartico
e introspettivo dell'Europa dei prìncipi, figure che tutti avrebbero
voluto essere poiché capaci di scegliere, di fare la storia, di
darne conto, “costruire la realtà”, così come erigevano e poi
comandavano i loro regni. È una nuova figura antropologica, posta al
culmine della piramide sociale, senza dubbio qualitativamente diversa
dagli antichi baroni o dagli Imperatori Universali stretti dal basso
dai loro feudatari elettori, di lato dai papi che li consacravano, in
alto da Dio cui rassegnavano il loro destino.
Lo scrollarsi di
dosso «le determinazioni sostanziali di famiglia, stato, stirpe [che
costituiscono] la vera e propria fatalità della tragedia greca»1
è tipico, ha scritto Kierkegaard, del mondo moderno. Ma chi vuole
sottrarsi con la forza al destino si fa egli stesso destino.
Ricapitolando, la struttura narrativa della tragedia cambia, facendo
cambiare anche il riflesso che essa dà del sociale e del culturale;
nella tragedia moderna quel vacuum entropico e caotico che fa
precipitare l'esistenza dell'eroe nell'abisso del tormento tragico,
non è più l'hubris atavica che lo ingabbia e da cui non può
fuggire, una struttura di Fato o di Karma giustamente o ingiustamente
preordinata da istanze superiori contro le quali nulla può fare se
non rompersi le unghie abbattendosi contro tale blocco di pietra.
Tutto il tragico sta nella stessa decisione autonoma dell'eroe.
Più la decisione è
assoluta – libera, energica, autodeterminata – ossia più è
carica di forze “positive” più essa sconfina nella tirannia e
trascina un intero regno alla rovina. L'agire sovrano che rompe con
il passato è in realtà un salto nel buio: Amleto che colpisce alla
cieca l'arazzo, Sigismondo che agisce sognando.
I tragediografi
dovevano assolutamente imporre ai loro eroi tale ambigua
oscurità al loro potere, era loro compito illustrare al pubblico
l'estremo di una data possibilità del reale e, tramite la scena
tragica far sussultare le coscienze al fine di carpire un'emozione.
Altri, in altri generi e ambiti del discorso culturale, però,
avrebbero potuto agire con diverse finalità, domandandosi dove il
salto nel vuoto possibile avrebbe potuto condurre e come ordinare il
caos che l'autodeterminazione mostrava come suo rischio collegato.
È la prima grande
figura del futuro che ci dà la letteratura europea: un orizzonte
maledetto ma inevitabile, la tragedia ha posto la storia su un piano
inclinato da cui non c'è ritorno. E una volta giunti alla fine,
l'impresa del sovrano si rivela – o meglio, non si rivela –
come la storia raccontata da un povero ragazzo pazzo, piena di
frastuono e di furia che non significa nulla – È tutto un po' di
quello che atterriva Novalis, Curtius ed Eliot.
Questo eroe privo
di freni si muove in una scena che è dotata per contro di una
straordinaria forza di gravità, nel senso che sarà tipico
che sui personaggi della tragedia barocca incombano le necessità di
andarsene dai luoghi dove la scena si ambienta; oppure levarsi da lì
è un loro intenso desiderio è una loro decisione ineluttabile e
fatale. Ma per contro tutti restano dove si trovano, come
imprigionati.
In
ultima analisi è lo spazio tragico a fondare la tragedia [...] ogni
tragedia sembra consistere in un volgare non c'è spazio per due.
Il conflitto tragico è una crisi di spazio2
Da dove nasce
questo sentimento di mancanza di spazio? È sicuramente un sentimento
di crisi; era forse indotto da fenomeni che portano a questioni di di
“storia materiale”, oppure è l'enigma polare e immane che
scaturisce dalla dissoluzione dei limiti e dall'assoluzione dei
comportamenti che fa apparire la libertà un qualcosa di mostruoso e
di devastante nei riguardi dello spazio vitale comune e condiviso?
Si potrebbe
aggiungere: una crisi di spazio causata da una riorganizzazione dello
spazio riuscita fin troppo bene. Come già per l'eroe il
paradosso nasce dal prendere le pretese dell'assolutismo troppo sul
serio, troppo alla lettera3.
La
teoria della sovranità imponeva di perfezionare l'immagine del
sovrano nel senso del tiranno4
Ho già evidenziato
come il compito della tragedia fosse l'estremo, non credo sia il caso
tornarci ancora sopra se non per guarnire il discorso con qualche
perla, come: da tale sinistro perfezionamento originò appunto la
tragedia. Così la Corte: il consolidamento dello Stato nazionale
(coi suoi confini incerti, e le sue disomogeneità interne)
richiedeva innanzitutto un forte centro di gravità. Un luogo
memorabile, ristretto, indiviso: dove davvero «non ci sta spazio per
due».
La tragedia è
l'estremizzazione della violenza che accompagna la formazione dello
Stato nazionale. È la forma, vi avevo accennato, con cui la
letteratura europea viene invasa dalla modernità; viene, anzi,
spaccata dalla modernità: «Fuori di sesto», qui, non è
solo il tempo: anche lo spazio si è frantumato. Nel giro di un paio
di generazioni, il fondo comune del dramma europeo si sfalda in un
susseguirsi di mutazioni formali che coinvolgono i grandi Stati
nazionali di Inghilterra, Spagna e Francia, e le culture di lingua
italiana e tedesca.
Interesse primario
tuttavia, è spiegare come a partire da un comune canone originario,
il genere letterario della tragedia si differenzi – per ora va bene
dire – regionalmente, in forme che sotto uno sguardo diacronico
sono state antagoniste e inaccettabili le une alla altre (ancora «Non
c'è spazio per due») – Rispondiamo dicendo che perché si abbia
una varietà morfologica c'è bisogno di uno spazio più tollerante,
ricco di «nicchie» culturali dove le mutazioni possono radicarsi,
per svolgere poi il loro ruolo nell'evoluzione letteraria.
La questione qui
posta può essere affrontata anche con alcuni ausilii dell'Ecologia
ponendo, primo luogo:
- «È un fatto ben noto che le grandi articolazioni dell'evoluzione sono da attribuirsi all'invasione di nuovi spazi ecologici5».
- «La diversità, ossia il numero di specie differenti in una data area, è largamente influenzata, e forse controllata, dalla quantità di spazio abitabile6».
Per domandarsi
poi: «Uno spazio abitabile più vasto di quello offerto dal
singolo Stato-nazione? Lo spazio dell'Europa? Ma quale Europa?».
Ancora una
domanda: quale Europa ha reso possibile la differenziazione del
genere letterario tragico?
Risposta:
Curtius delinea una sorta di staffetta letteraria continentale, una
rotazione più o meno secolare della letteratura guida cui si ispira
il resto d'Europa... Che però non funziona come analisi: se fosse
stata una specie di Spagna in grande allora vi troveremo gli stessi
vincoli incontrati nello Stato-nazione spagnolo, e non ci sarebbe
posto per la versione inglese, o francese, della forma tragica. Se
ciò viceversa fu possibile, la ragione sta, con Guizot, nella
disgiunzione costitutiva della scena culturale europea. E questo
significa che l'Europa non offre solo «più spazio», rispetto allo
Stato-nazione, ma soprattutto un altro spazio: diversificato,
discontinuo, disomogeneo.
Lo
spazio europeo va insomma concepito come una sorta di arcipelago: un
insieme di spazi (nazionali) ognuno dei quali produce una (e una
sola) mutazione formale. Visti «da dentro» e nel loro isolamento,
questi spazi ci appaiono ostili alle mutazioni: la loro crescente
omogeneità culturale si fissa su una forma, e non ne tollera di
alternative. Ma visti «da fuori», e come parti dell'Europa, quegli
stessi spazi nazionali si rivelano invece come altrettanti portatori
di mutazioni.
Se quanto abbiamo
detto è vero questo passaggio e anche il precedente “autorizza”
quella mia digressione sulla materialità spaziale dell'Europa in
quanto l'Europa – geografica – non è più l'immoto fondale per
le gesta – storiche – dello «spirito europeo». Questo spazio
non è una quinta della storia, ma un suo fattore; sempre importante,
spesso decisivo.
Una condizione
del discorso culturale: i mutamenti più significativi non
avvengono per aver avuto a disposizione molto tempo, ma perché c'era
al momento giusto, che di norma è assai breve, molto spazio (Meglio
ancora, molti spazi plurali, per le tante combinazioni che fanno la
ricchezza dell'evoluzione letteraria). Se dunque, per riprodursi, una
forma ha bisogno di tempo, per nascere ha soprattutto bisogno di
spazio. Di culture nazionali vicine, ma diverse, e magari nemiche:
dove si possa e anzi quasi si debba, esplorare il campo del possibile
in tutte le sue varianti. Di nuovo; lo spazio di un'Europa divisa.
È un discorso
sulla letteratura, che però è parte del discorso culturale generale
sull'idea dell'Europa; la letteratura è un'articolazione di questo
discorso, e le sue cangianti evoluzioni principiano – se mi si
passa l'ossimoro concettuale – dal terreno comune di uno spazio
europeo che si sfalda, si sgretola perdendo il suo collante. Così
anche la politica, sa quella “parlata” che quella “praticata”
potrebbe avere a loro fondamento lo stesso fattore di spinta.
1Sören
Kiekegaard, Il
riflesso del tragico antico nel tragico moderno,
in Ente-Eller,
trad. it. Milano, 1977, Vol II, pp. 24, 31.
2P.8;
Roland
Barthes, L'uomo Raciniano,
in Saggi Critici,
1964, trad. it., Torino 1972, pp. 160-161.
3E
“alla lettera” ci leggevano nel Medio Evo, ma questo tipo di
lettura era “solido”, aveva dei punti di riferimento che invece
la laicizzazione toglie. La laicizzazione, toglie agli uomini del
Cinquecento e poi del Barocco dei punti di riferimento riguardo il
concetto di libertà e la tragedia dà forma ai loro mostri?
4Walter
Benjamin, Il Dramma Barocco Tedesco,
1928, trad. it., Torino, 1971, p. 58
5Jacques
Monod, Il caso e la necessità,
1970, trad. it. Milano 1974, p. 125.
6Pp.
9-10; Stephen Jay Gould,
Ever Since Darwin, New York
– London, 1977, p.136.
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