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Ditesti

giovedì 4 aprile 2013

Appunti sullo spirito della storia europea (parte 2 di 6)

La Letteratura
Seguendo il tema letterario con l'ultimo modello analizzato si fa in modo di trovare il «sistema delle letterature d'Europa», fatto di entità nazionali (e regionali) ben distinte, spesso rivali tra loro. È un'inimicizia produttiva, senza la quale sarebbero tutte più insipide ed è un bel modo per chiamare in causa la “concorrenza” che potrebbe essere stata tanto economica quanto culturale; anche se penso che fosse più una concorrenza culturale, volta a dominare e influenzare gli altri Stati. Senza, il tono dell'insieme sarebbe stato più smorto. Ma la diversità non diventa mai autosufficienza, o ignoranza reciproca: in Europa non ci sono deserti, né oceani o distanze smisurate a irrigidire per secoli i tratti di una civiltà. Lo spazio stretto dell'Europa impone a ogni cultura di interagire con le altre: dà loro un destino comune, intessuto di gerarchie e rapporti di forza.
E qui possiamo anche pensare alle caratteristiche demografiche e geografiche del continente, della “penisola sub-asiatica” che però, in quella proporzionale piccolezza ha sempre contenuto una popolazione elevata, ma soprattutto “concentrata” in un territorio differente per clima, paesaggi e molte altre cose producendo policentrismo.

Poche cose dànno l'idea di un'Europa policentrica come la genesi della grande tragedia barocca. A metà Cinquecento, a dire il vero, le cose stanno in tutt'altro modo. Le tragedie erano scritte in latino su ben noti argomenti biblici, ottimo esempio di diffusa unità, nel tempo e nello spazio del dramma europeo. Per la tragedia colta, il modello ovunque è Seneca, e le tradizioni medievali, che poggiano su un analogo fondo di religiosità popolare, si assomigliano un po' tutte. Comune a tutta l'Europa è infine anche l'eroe tragico adeguato ai tempi (il sovrano assoluto), e la memorable Scene, come la chiamerà Andrew Marwell, di una Corte che si macchia di sangue.
Attraverso la letteratura e la rappresentazione teatrale, sorge una nuova figura centrale, un tipo d'eroe e quindi un nuovo protagonista sociale che porta con sé uno strappo rispetto al passato: il sovrano, che si vuole “ab-solutus”, cioè sciolto, libero dai vincoli etico-politici del passato feudale, il che significa come rispetto a tale passato c'è stata una dissoluzione delle vecchie gerarchie di vasta scala, e la nascita di nuovi rapporti di forza che iniziarono a incidere nella sensibilità dei tempi.
Il sovrano assoluto non trae più la sua legittimità dal sottomettersi a una tradizione immutabile, ma da quella che Hegel chiamerà «autodeterminazione»: la possibilità di decidere liberamente e porsi così come nuova origine del corso storico. Nella tragedia barocca, il fulcro delle vicende saranno proprio le decisioni del principe: autonome, spesso oscure, e quasi sempre ingiuste che diverranno lo specchio catartico e introspettivo dell'Europa dei prìncipi, figure che tutti avrebbero voluto essere poiché capaci di scegliere, di fare la storia, di darne conto, “costruire la realtà”, così come erigevano e poi comandavano i loro regni. È una nuova figura antropologica, posta al culmine della piramide sociale, senza dubbio qualitativamente diversa dagli antichi baroni o dagli Imperatori Universali stretti dal basso dai loro feudatari elettori, di lato dai papi che li consacravano, in alto da Dio cui rassegnavano il loro destino.
Lo scrollarsi di dosso «le determinazioni sostanziali di famiglia, stato, stirpe [che costituiscono] la vera e propria fatalità della tragedia greca»1 è tipico, ha scritto Kierkegaard, del mondo moderno. Ma chi vuole sottrarsi con la forza al destino si fa egli stesso destino. Ricapitolando, la struttura narrativa della tragedia cambia, facendo cambiare anche il riflesso che essa dà del sociale e del culturale; nella tragedia moderna quel vacuum entropico e caotico che fa precipitare l'esistenza dell'eroe nell'abisso del tormento tragico, non è più l'hubris atavica che lo ingabbia e da cui non può fuggire, una struttura di Fato o di Karma giustamente o ingiustamente preordinata da istanze superiori contro le quali nulla può fare se non rompersi le unghie abbattendosi contro tale blocco di pietra. Tutto il tragico sta nella stessa decisione autonoma dell'eroe.
Più la decisione è assoluta – libera, energica, autodeterminata – ossia più è carica di forze “positive” più essa sconfina nella tirannia e trascina un intero regno alla rovina. L'agire sovrano che rompe con il passato è in realtà un salto nel buio: Amleto che colpisce alla cieca l'arazzo, Sigismondo che agisce sognando.
I tragediografi dovevano assolutamente imporre ai loro eroi tale ambigua oscurità al loro potere, era loro compito illustrare al pubblico l'estremo di una data possibilità del reale e, tramite la scena tragica far sussultare le coscienze al fine di carpire un'emozione. Altri, in altri generi e ambiti del discorso culturale, però, avrebbero potuto agire con diverse finalità, domandandosi dove il salto nel vuoto possibile avrebbe potuto condurre e come ordinare il caos che l'autodeterminazione mostrava come suo rischio collegato.
È la prima grande figura del futuro che ci dà la letteratura europea: un orizzonte maledetto ma inevitabile, la tragedia ha posto la storia su un piano inclinato da cui non c'è ritorno. E una volta giunti alla fine, l'impresa del sovrano si rivela – o meglio, non si rivela – come la storia raccontata da un povero ragazzo pazzo, piena di frastuono e di furia che non significa nulla – È tutto un po' di quello che atterriva Novalis, Curtius ed Eliot.
Questo eroe privo di freni si muove in una scena che è dotata per contro di una straordinaria forza di gravità, nel senso che sarà tipico che sui personaggi della tragedia barocca incombano le necessità di andarsene dai luoghi dove la scena si ambienta; oppure levarsi da lì è un loro intenso desiderio è una loro decisione ineluttabile e fatale. Ma per contro tutti restano dove si trovano, come imprigionati.

In ultima analisi è lo spazio tragico a fondare la tragedia [...] ogni tragedia sembra consistere in un volgare non c'è spazio per due. Il conflitto tragico è una crisi di spazio2

Da dove nasce questo sentimento di mancanza di spazio? È sicuramente un sentimento di crisi; era forse indotto da fenomeni che portano a questioni di di “storia materiale”, oppure è l'enigma polare e immane che scaturisce dalla dissoluzione dei limiti e dall'assoluzione dei comportamenti che fa apparire la libertà un qualcosa di mostruoso e di devastante nei riguardi dello spazio vitale comune e condiviso?
Si potrebbe aggiungere: una crisi di spazio causata da una riorganizzazione dello spazio riuscita fin troppo bene. Come già per l'eroe il paradosso nasce dal prendere le pretese dell'assolutismo troppo sul serio, troppo alla lettera3.

La teoria della sovranità imponeva di perfezionare l'immagine del sovrano nel senso del tiranno4

Ho già evidenziato come il compito della tragedia fosse l'estremo, non credo sia il caso tornarci ancora sopra se non per guarnire il discorso con qualche perla, come: da tale sinistro perfezionamento originò appunto la tragedia. Così la Corte: il consolidamento dello Stato nazionale (coi suoi confini incerti, e le sue disomogeneità interne) richiedeva innanzitutto un forte centro di gravità. Un luogo memorabile, ristretto, indiviso: dove davvero «non ci sta spazio per due».
La tragedia è l'estremizzazione della violenza che accompagna la formazione dello Stato nazionale. È la forma, vi avevo accennato, con cui la letteratura europea viene invasa dalla modernità; viene, anzi, spaccata dalla modernità: «Fuori di sesto», qui, non è solo il tempo: anche lo spazio si è frantumato. Nel giro di un paio di generazioni, il fondo comune del dramma europeo si sfalda in un susseguirsi di mutazioni formali che coinvolgono i grandi Stati nazionali di Inghilterra, Spagna e Francia, e le culture di lingua italiana e tedesca.

Interesse primario tuttavia, è spiegare come a partire da un comune canone originario, il genere letterario della tragedia si differenzi – per ora va bene dire – regionalmente, in forme che sotto uno sguardo diacronico sono state antagoniste e inaccettabili le une alla altre (ancora «Non c'è spazio per due») – Rispondiamo dicendo che perché si abbia una varietà morfologica c'è bisogno di uno spazio più tollerante, ricco di «nicchie» culturali dove le mutazioni possono radicarsi, per svolgere poi il loro ruolo nell'evoluzione letteraria.
La questione qui posta può essere affrontata anche con alcuni ausilii dell'Ecologia ponendo, primo luogo:
  1. «È un fatto ben noto che le grandi articolazioni dell'evoluzione sono da attribuirsi all'invasione di nuovi spazi ecologici5».
  2. «La diversità, ossia il numero di specie differenti in una data area, è largamente influenzata, e forse controllata, dalla quantità di spazio abitabile6».
Per domandarsi poi: «Uno spazio abitabile più vasto di quello offerto dal singolo Stato-nazione? Lo spazio dell'Europa? Ma quale Europa?».

Ancora una domanda: quale Europa ha reso possibile la differenziazione del genere letterario tragico?

Risposta: Curtius delinea una sorta di staffetta letteraria continentale, una rotazione più o meno secolare della letteratura guida cui si ispira il resto d'Europa... Che però non funziona come analisi: se fosse stata una specie di Spagna in grande allora vi troveremo gli stessi vincoli incontrati nello Stato-nazione spagnolo, e non ci sarebbe posto per la versione inglese, o francese, della forma tragica. Se ciò viceversa fu possibile, la ragione sta, con Guizot, nella disgiunzione costitutiva della scena culturale europea. E questo significa che l'Europa non offre solo «più spazio», rispetto allo Stato-nazione, ma soprattutto un altro spazio: diversificato, discontinuo, disomogeneo.

Lo spazio europeo va insomma concepito come una sorta di arcipelago: un insieme di spazi (nazionali) ognuno dei quali produce una (e una sola) mutazione formale. Visti «da dentro» e nel loro isolamento, questi spazi ci appaiono ostili alle mutazioni: la loro crescente omogeneità culturale si fissa su una forma, e non ne tollera di alternative. Ma visti «da fuori», e come parti dell'Europa, quegli stessi spazi nazionali si rivelano invece come altrettanti portatori di mutazioni.
Se quanto abbiamo detto è vero questo passaggio e anche il precedente “autorizza” quella mia digressione sulla materialità spaziale dell'Europa in quanto l'Europa – geografica – non è più l'immoto fondale per le gesta – storiche – dello «spirito europeo». Questo spazio non è una quinta della storia, ma un suo fattore; sempre importante, spesso decisivo.

Una condizione del discorso culturale: i mutamenti più significativi non avvengono per aver avuto a disposizione molto tempo, ma perché c'era al momento giusto, che di norma è assai breve, molto spazio (Meglio ancora, molti spazi plurali, per le tante combinazioni che fanno la ricchezza dell'evoluzione letteraria). Se dunque, per riprodursi, una forma ha bisogno di tempo, per nascere ha soprattutto bisogno di spazio. Di culture nazionali vicine, ma diverse, e magari nemiche: dove si possa e anzi quasi si debba, esplorare il campo del possibile in tutte le sue varianti. Di nuovo; lo spazio di un'Europa divisa.
È un discorso sulla letteratura, che però è parte del discorso culturale generale sull'idea dell'Europa; la letteratura è un'articolazione di questo discorso, e le sue cangianti evoluzioni principiano – se mi si passa l'ossimoro concettuale – dal terreno comune di uno spazio europeo che si sfalda, si sgretola perdendo il suo collante. Così anche la politica, sa quella “parlata” che quella “praticata” potrebbe avere a loro fondamento lo stesso fattore di spinta.



1Sören Kiekegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Ente-Eller, trad. it. Milano, 1977, Vol II, pp. 24, 31.
2P.8; Roland Barthes, L'uomo Raciniano, in Saggi Critici, 1964, trad. it., Torino 1972, pp. 160-161.
3E “alla lettera” ci leggevano nel Medio Evo, ma questo tipo di lettura era “solido”, aveva dei punti di riferimento che invece la laicizzazione toglie. La laicizzazione, toglie agli uomini del Cinquecento e poi del Barocco dei punti di riferimento riguardo il concetto di libertà e la tragedia dà forma ai loro mostri?
4Walter Benjamin, Il Dramma Barocco Tedesco, 1928, trad. it., Torino, 1971, p. 58
5Jacques Monod, Il caso e la necessità, 1970, trad. it. Milano 1974, p. 125.
6Pp. 9-10; Stephen Jay Gould, Ever Since Darwin, New York – London, 1977, p.136.

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