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Ditesti

martedì 2 aprile 2013

Appunti sullo “spirito” della storia europea (Parte 1 di 6)



Rimetto qui “in bella” una serie di appunti che tempo addietro presi per tentare un concorso di dottorato di ricerca presso un'università italiana. La materia di studio era la “Storia d'Europa” e, sebbene questi appunti risultino ormai un po' datati – principalmente a causa della mutazione storica avvenuta nel biennio 2012-2013 – sono paginette che offrono spunti di riflessione e di approfondimento soprattutto riguardo due aspetti principali. In primo luogo le “visioni” del continente europeo, prese da alcuni “concepimenti concettuali” di notevole impatto che sono stati poi spunti d'origine per la formulazione di parte dei tanti “modelli d'Europa”. Successivamente, il percorso di studio si approfondisce andando a estrarre da queste concettualizzazioni quei caratteri salienti, quegli aspetti di maggiore importanza che sembrano siano stati meglio capaci di suggerire agli europei del passato e del presente tematiche per costruire il loro rapporto con il continente.
Gli appunti, partendo così da un approccio classico e consolidato tipico di molte analisi, scivolano verso la lettura di uno “spirito” europeo sulla filigrana dei generi e delle produzioni letterarie nell'arco di tempo compreso tra il '600 e le avanguardie novecentesche, contribuendo così a mostrare i punti di snodo salienti e le dinamiche più importanti.


Preamboli
L'idea dell'Europa è esistita da sempre. Non voglio imbellettare la prosa affondando in radici lontane, tra il religioso e il mitologico. Evito questa scelta non unicamente per sobrietà stilistica, ma per una ragione più “decisiva” e concreta. Nell'ambito delle scienze umanistiche, con particolare riferimento alle discipline storiche, sono sempre stato uno studente che ha prediletto i fenomeni di “cesura”: cambiamenti, sconvolgimenti, salti di paradigma e mutazioni, rispetto ai tratti di continuità. Per qualcuno la mia non potrebbe essere che una scelta tra le tante, ma non mi sono mai ritenuto un “relativista”, bensì un materialista che ha sempre osteggiato ogni forma di proporzionalità dell'immutabile e dell'immanente così come ogni suo contrario.
Quindi, di Europe, a mio modo di vedere ne abbiamo conosciute molte. Ognuna con i suoi caratteri salienti e cangianti. Il punto, qui, sta tutto nell'individuare sia i mutamenti sia nel saper riconoscere gli impatti che questi creano sulla materia della realtà: alcuni di questi mutamenti saranno leggeri e passeggeri come le mode, altre invece riusciranno a segnare dei percorsi come pietre miliari, come principî di lunga durata.

I modelli
Discutere dell'idea di Europa (come fece anche Chabod nel suo celebre libro) non può certo trascurare l'aggancio alla speculazione teorica sul continente, ovverosia l'indagare su modelli astratti pur se ormai siamo tutti consapevoli del loro scarso valore epistemologico.
Uno dei modelli più forti e importanti per l'Europa appartiene a Novalis; è importante anche per il periodo storico di formulazione – il momento culmine dell'esperienza Romantica – il suo saggio del 1799 che poi, ha per titolo: “La Cristianità, ossia l'Europa”, porta innanzi un passo di valore paradigmatico per la concezione teorica del continente.

«Erano tempi belli, splendenti quelli dell'Europa cristiana, quando un'unica Cristianità abitava questo continente di forma umana, e un solo, ampio comune disegno univa le più lontane province di questo vasto regno spirituale. Privo di grandi possedimenti secolari, un unico capo supremo governava e teneva unite le grandi forze politiche».

Questo stralcio contiene un'equazione, la quale, per la sua semplicità è estremamente efficace: l'Europa è eguale alla Cristianità, e la cristianità è unita. Probabilmente Novalis non inventò un bel nulla. È più coerente in questo caso parlare di una sua re-proposal tratta dalle osservazioni di altri pensatori del passato. Tuttavia non si può escludere che sul finire del XVIII e l'inizio del XIX secolo fosse una tematica capace di far presa.
C'è da dire, anche e a “onor del vero”, di come queste poche righe di Novalis esprimono un concentrato di concetti e ideologia che a diversi occhi critici potrebbe far alzare più di un sopracciglio, sicuramente per il dispotico assolutismo con cui la sua tesi e il suo concetto vengono avanzati. Ma Novalis non era un uomo di mezze misure, la sua visione esige categoriamente l'approvazione della condanna di Galilei e l'elevazione di un inno in lode della Compagnia di Gesù: «con mirabile intelligenza e costanza, con una saggezza che non s'era mai vista, una simile Società, che non era mai apparsa prima nella storia universale...»
Sono tutte concezioni nettamente intransigenti, ma con analisi equipollente e neutrale spirito critico, si farà presente che tale presupposto ideologico è stato pure – e forse sempre – il “motore” o la “scintilla” che ha portato altre opere che trattavano lo stesso argomento, a essere considerate come dei «capolavori» del settore.

Se prendiamo un'altra opera, come “La letteratura europea e il Medio Evo latino” di Ernst Robert Curtius (1948), anch'essa “dotata” della stessa intransigente concezione dell'unità europea, e giudicata da Auerbach come: «Quest'opera intende cogliere la letteratura europea come un tutto unico, e fondare tale unità sulla tradizione latina»; o come nelle stesse pagine dell'opera si ritrova: «Si deve considerare il Medio Evo nella sua continuità tanto con l'Antichità che con il mondo moderno. Solo così si può pervenire a quello che Toynbee chiamerebbe an inteligible field of study. Questo campo è, per l'appunto, la letteratura europea», si può ipotizzare che sicuramente Curtius aveva aveva letto il saggio di Novalis.
L'affinità concepistica tra lui e il Romantico sembra utile incardinare anche (anche figurativamente) l'argomento tramite l'unità di spazio (Alla metafora spaziale di Novalis – Roma come centro dell'Europa) che si incastra con l'unità di tempo (Curtius aggiunge una catena temporale, di cui il Medioevo è l'anello intermedio, e che conduce peraltro anch'essa a Roma), per arrivare a dire che secondo questi due intellettuali L'Europa ha una fisionomia spirituale sua propria perché è una.
È un concetto questo, di identità assoluta. Si tratta senza ombra di dubbio di qualcosa molto simile o molto vicino all'Idea dell'Idealismo dell'Ottocento, più pura e spiccata. Essa non si lascia sfuggire l'unità complessiva anche con il periodo precristiano, come sentenzia Curtius: «Si è europei quando si è diventati cives romani». Quindi l'Europa era una anche nell'Antichità. Tuttavia, Curtius è un critico letterario e non uno storico, l'idea di Europa che ha in testa non corrisponde esattamente con i confini geopolitici tipici, quelli che sono di più larga comprensione e diffusione tra tutti. I confini dell'Europa letteraria di Curtius sono di tipo linguistico e la sua Europa è la “Romània” dei linguisti, cioè quel territorio del continente, grossomodo corrispondente all'antico Impero Romano poiché spazio dove la lingua latina si era insediata, diffusa ed era restata.
Utilizzo il termine “restata” poiché per Curtius gli apporti del latino e della classicità romano-cristiana sono un portato fondante, un qualcosa di primigenio e inscalfibile capace di resistere ai processi e ai successivi avvenuti della storia. Per Curtius la “Romània” è spazio unitario latino-cristiano, di cui le culture nazionali moderne sono semplici reincarnazioni locali, non per nulla dominate da opere universalistiche – la Commedia, il Faust – che vanificano l'idea di letteratura «nazionale» nell'atto stesso in cui sembrano fondarla, c'è una sola letteratura, ed è la letteratura europea.
Metterei evidenza sull'aspetto dell'universalismo, poiché credo che spesso sia il punto centrale attraverso il quale certa teoria si rifà per giustificarsi, chi attraverso la chiamata in causa di una missione, chi attraverso l'esaltazione di una qualsiasi specie di ineluttabilità che una “cosa” europea assurga a tale dimensione, quasi extra-dimensionale e imponderabile.
Secondo punto – che già abbiamo visto in verità – spesso chiamato in causa da questa tipologia di sostenitori dell'unità dell'Europa a qualunque condizione, è la continuità. Per esempio Curtius sostiene (sebbene la tesi abbia una potenza logica inferiore a quella dell'universalismo1) che la matrice unitaria della letteratura europea, affondando le sue radici nei tempi dell'Impero antico di Roma, persiste e prosegue fino a tutta l'epoca moderna, fino ai giorni suoi.
Per Curtius tutto questo, e il senso stesso del suo lavoro di studioso, ha una valore di salvaguardia spirituale ed etica, nella prefazione alla seconda edizione scrive: «Questo libro non è il prodotto di finalità puramente scientifiche, ma della preoccupazione per la salvaguardia della civiltà occidentale. Vi si cerca di chiarire l'unità di questa tradizione nel tempo e nello spazio. Nel caos spirituale della nostra epoca, dimostrare tale unità è diventato necessario, ed è anche possibile».
Il caos a quanto pare sembra essere “il male” che cruccia profondamente gli intellettuali qui presi in esame e molti altri a loro aggregabili. Per esempio Eliot, di cui esiste uno splendido passo tratto dalla sua recensione dell'Ulisse nel quale il poeta inglese si dispera sul trovare un «modo di controllare, ordinare, dare una forma e un significato all'immenso panorama di futilità ed anarchia che è la storia contemporanea». Per Novalis la causa di tutto questo è una e sola, situata a cavallo dei secoli XVI e XVII, individuata nello Stato nazionale moderno, che fin dai suoi inizi ha rifiutato «irreligiosamente» il primato di un centro spirituale sovra-nazionale. Ma messa così, questa idea europea, sembra un'idea-fantasma, un qualcosa che dovrebbe essere quasi esclusivamente per la spinta suggestiva di una qualche reminescente idea saturnina o saturnale di un'età dell'oro.
Non dimentichiamo mai che Novalis, Curtius ed Eliot erano uomini dei loro tempi, e non profeti, e quindi per il primo c'erano le vittoriose guerre napoleoniche, e per il secondo duo le due guerre mondiali, ma oltre questo con loro tre ci troviamo situati nella più profonda concezione dell'ideologia di destra di tutta l'Europa intera, forse neanche conservatrice e sicuramente neanche fascista o nazional-socialista2, ma prettamente di stampo reazionario. Questo perché: la cultura europea esiste solo in quanto unità (latina o cristiana, o quello che si vuole, se si trascende verso la concezione “artefatta” nel nazionalismo), e allora lo Stato nazionale moderno è la vera e propria negazione dell'Europa. Forse la cosa valeva anche per un britannico come Eliot, ai tempi suddito del più grande impero del mondo, ma che non era mai riuscito a essere universale e forse nessuno l'aveva mai veramente pensato tale. In questo quadro premoderno, o più precisamente anti-moderno, non si dànno vie di mezzo. L'Europa è un tutto organico3, oppure non è. Esiste se non esistono gli Stati e viceversa: quando questi emergono, quella perisce, e potrà solo essere reimpiantata, come già nell'incipit elegiaco di Novalis. Il suo lamento per un mondo che ha perso l'anima: non più «abitata» dal grande disegno disegno cristiano, l'Europa è stata dannata ad essere mera materia: spazio senza senso.

Siamo quindi arrivati a definire tre intellettuali del passato come reazionari antimoderni. Questa Destra (con la maiuscola e senza virgolette) dovrebbe essere frutto del pensiero idealistico del Romanticismo poi seguitata quasi inalterata per quasi due secoli e qualcosa. Selezioniamo quindi un'altra “voce di un'epoca”, o più precisamente di una generazione, quella immediatamente successiva a Novalis: Guizot nel 1828. Il famoso storico francese sostiene che: «Nella storia dei popoli non europei, la coesistenza e il conflitto di principi diversi non sono stati che crisi passeggere4».
Quel “non” in corsivo è mio, l'ho evidenziato perché lo storico a quanto pare parte senza concedere alcun punto di contatto con Novalis; non condivide la “estendibilità” della sua osservazione sulla capacità delle popolazioni extra-europee di mantenere la loro omogeneità neanche per l'era europea che Novalis sussumeva sotto l'aggettivo “unico” ripetuto più e più volte.
Dobbiamo credergli davvero? Siamo di fronte a un altro intransigente che dice solo qualcosa di di diverso? Però quando al capoverso successivo (di qualche pagina) scrive: «Tutto al contrario nella civiltà dell'Europa moderna» pare “sfuggirgli” la parola «moderna» come non fosse proprio sicuro di quello che aveva scritto poc'anzi.
Inoltre, il panorama di Guizot vedeva, era consistente in:

Fin dal primo sguardo [l'Europa moderna?] appare varia, confusa, tempestosa; tutte le forme, tutti i principi di organizzazione sociale vi coesistono; il potere spirituale e temporale, l'elemento teocratico, tutte le classi, tutte le situazioni sociali si mescolano e si affollano; vi sono infinite gradazioni di libertà, di ricchezza e di potere. Tra queste forze esiste un conflitto perpetuo, e nessuna di loro riesce a soffocare le altre, e ad impadronirsi da sola della società nel suo insieme. Nelle idee e nei sentimenti dell'Europa, stessa diversità, stessa lotta. Concezioni teocratiche, monarchiche, aristocratiche, popolari, si incrociano e si combattono.

Vorrei fa notare una cosa: Guizot scrive questa panoramica sulla civiltà europea esattamente venti anni prima che il continente europeo venisse scosso nuovamente da quell'ondata di rivoluzioni profondamente sommovitrici delle coscienze di tutte le classi sociali. In altre parole, vorrei invitare a non fare confusione, a non travisare attribuendo a queste righe un'interpretazione che non gli appartiene. A me infatti, piuttosto che una visione infausta e apocalittica, mi pare che Guizot descriva un'Europa dinamica, che si stava gonfiando per un'esplosione non solo politica ma anche economica.
Fatto sta che il “dinamismo” è considerato in modo ben diverso qui: Nella Cristianità, differenze e conflitti uccidevano l'Europa; in Guizot la fanno nascere. L'Europa – “questa Europa”? – è nata dalle ceneri: dalla disfatta dell'universalismo romano-cristiano.
Abbiamo un'altra serie di autori, scrittori, pensatori e uomini politici che accolgono tra le braccia un senso di discontinuità che Novalis non è stato in grado di né di negare né di assotterrare. Di buon grado questi rinunciano e svolgono le esequie dell'Idea. Inutile, dunque, cercare il segreto in un luogo, o valore, o istituzione quale che sia. Meglio abbandonare del tutto l'idea di un centro, o di un'«essenza» europea, e vederla piuttosto come un politeistico campo di forze.
Ma così come ho voluto frenare sul passo di Guizot: non è questo il caso di sbilanciarsi ad attribuire etichette a questa linea di pensiero, soprattutto affastellando tutto e tutti in quella categoria di critici sociali che riducono tutto al puro movimento economico, come certe letture della storia sono use propinarci.
Diverse potevano essere le opinioni, le vedute, i punti i partenza di questi studiosi. Per Barraclough: «L'idea di Europa come entità specifica è post-classica. Fu creata nel Medioevo. In termini generali, è il risultato del crollo dell'universalismo dell'impero romano». E più di altro l'impero Carolingio «non fu un inizio, ma una conclusione. Da allora in poi, l'unità europea implica l'articolazione delle differenze regionali, non la loro soppressione» (Geoffrey Barraclough, European Unity in Thought and Action, Oxford, 1963, pp. 7, 12-13).
Nel caso di questo intellettuale inglese, l'attenzione è posta sulla dissoluzione di una istituzione centralizzata (che forse è considerata fin troppo unitaria e organica) per lasciare spazio alla differenziazione regionale che poi ha creato un sistema integrato, sull'esempio di quel modello che fu l'Europa dei centri urbani del Secolo XIII e XIV.

Considerazioni simili a queste in un'altra opera largamente ispirata a Guizot, la “Storia dell'Idea di Europa” di Federico Chabod, (Bari, 1961), mentre Immanuel Wallerstein ha riformulato questa tesi in termini di storia economica, definendo il capitalismo moderno come quel rapporto sociale «che si afferma in uno spazio più vasto di quanto possa essere controllato da una qualsivoglia entità politica»: agli Stati divisi dell'Europa cinque-seicentesca fu dunque possibile quel decollo che i grandi imperi asiatici, politicamente uniti, non riuscirono mai a compiere (The Modern World System, New Yor-San Francisco-London, 1974, pp. 348, 61-63). Sul confronto che Wallerstein fa tra il sistema Europa-frammentato e i colossi orientali unificati, ci sarebbe moltissimo da approfondire, soprattutto dal punto di vista delle strutture economiche. Due le osservazioni che arrivano subito: la caduta del sistema feudale è stato davvero l'elemento determinante che ha differenziato l'Occidente dall'Oriente? E poi, è innegabile che quella frase di Wallerstein richiama immediatamente quella di Guizot.
Ultimo – per il momento – storico da citare è Edgar Morin: «Tutto ciò che semplifica l'Europa – idealizzazione, astrazione o riduzione – la mutila. L'Europa è un Complesso (complexus: cioè che è tessuto insieme) il cui carattere è di riunire insieme senza confonderle le più grandi diversità e di associare i contrari in maniera non separabile»5
È da questo ultimo passo, visto che di complesso in qualità di tessuto si parlava, è possibile trovare la “tela”, il pezzo di stoffa malleabile con cui modellare l'idea d'Europa, che in quanto complesso, è difficile da ridurre in elementi; serve uno sforzo mentale per immaginarsi la definizione “in funzione”. Come ogni sistema complesso, l'Europa cambia col tempo, con particolare velocità a partire dal secolo XVI, la sua identità non si definisce nonostante le metamorfosi, ma nelle metamorfosi. Accident Prone, facile agli incidenti, come la chiamerebbe una compagnia di assicurazione, questa Europa non vuole evitare



1Apro qui una nota perché la “forza” della tesi di Curtius merita d'essere spiegata. E, in effetti, quando si chiamano in causa opere come quella di Dante o di Goethe, lasciando intendere che “come queste opere, strepitose e insigni, diventano dei paradigmi letterari, linguistici e culturali per le comunità natie di tali eccelsi artisti, tutto questo viene immediatamente dissolto dal pinnacolo universalistico verso il quale proprio gli eccelsi tendono”, è senza dubbio un'analisi importante e difficile da scardinare restando sulla stessa lunghezza d'onda della tesi.
2Infatti, l'idea di collegare Novalis e la sua concezione a queste due ideologie è decisamente velleitaria, per non dire che sarebbe un errore storico enorme e banale, in quanto i fascismi e i nazionalsocialismi sono fenomeni storici sorti in modo concreto nel XX secolo, e la loro nascita fu uno sbocco di tante discontinuità storiche nell'ordine sociale, politico e culturale dell'Occidente.
3Questo concetto, il “Tutto-Organico” mi era sfuggito precedentemente; si tratta di una concezione molto forte, specie nella sociologia del XIX, la quale si soffermò parecchio sulla cosiddetta “società organica” specie di stampo “primitivo” vista agli albori della ricerca antropologica.
4François Guizot, Historie de la Civilisasion en Europe, 1828, 6a ed., Paris 1855, pp. 35, 37-38.
5Edgar Morin, Pensare l'Europa, 1987, trad. it., Milano 1988, p.22.

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