Rimetto qui “in bella” una serie di appunti che
tempo addietro presi per tentare un concorso di dottorato di ricerca
presso un'università italiana. La materia di studio era la “Storia
d'Europa” e, sebbene questi appunti risultino ormai un po' datati –
principalmente a causa della mutazione storica avvenuta nel biennio
2012-2013 – sono paginette che offrono spunti di riflessione e di
approfondimento soprattutto riguardo due aspetti principali. In primo
luogo le “visioni” del continente europeo, prese da alcuni
“concepimenti concettuali” di notevole impatto che sono stati poi
spunti d'origine per la formulazione di parte dei tanti “modelli
d'Europa”. Successivamente, il percorso di studio si approfondisce
andando a estrarre da queste concettualizzazioni quei caratteri
salienti, quegli aspetti di maggiore importanza che sembrano siano
stati meglio capaci di suggerire agli europei del passato e del
presente tematiche per costruire il loro rapporto con il continente.
Gli appunti, partendo così da un approccio classico
e consolidato tipico di molte analisi, scivolano verso la lettura di uno
“spirito” europeo sulla filigrana dei generi e delle produzioni
letterarie nell'arco di tempo compreso tra il '600 e le avanguardie
novecentesche, contribuendo così a mostrare i punti di snodo
salienti e le dinamiche più importanti.
Preamboli
L'idea dell'Europa è esistita da sempre. Non voglio
imbellettare la prosa affondando in radici lontane, tra il religioso
e il mitologico. Evito questa scelta non unicamente per sobrietà
stilistica, ma per una ragione più “decisiva” e concreta.
Nell'ambito delle scienze umanistiche, con particolare riferimento
alle discipline storiche, sono sempre stato uno studente che ha
prediletto i fenomeni di “cesura”: cambiamenti, sconvolgimenti,
salti di paradigma e mutazioni, rispetto ai tratti di continuità.
Per qualcuno la mia non potrebbe essere che una scelta tra le tante,
ma non mi sono mai ritenuto un “relativista”, bensì un
materialista che ha sempre osteggiato ogni forma di proporzionalità
dell'immutabile e dell'immanente così come ogni suo contrario.
Quindi, di Europe, a mio modo di vedere ne
abbiamo conosciute molte. Ognuna con i suoi caratteri salienti e
cangianti. Il punto, qui, sta tutto nell'individuare sia i mutamenti
sia nel saper riconoscere gli impatti che questi creano sulla
materia della realtà: alcuni di questi mutamenti saranno leggeri e
passeggeri come le mode, altre invece riusciranno a segnare dei
percorsi come pietre miliari, come principî
di lunga durata.
I modelli
Discutere dell'idea di Europa (come fece anche Chabod
nel suo celebre libro) non può certo trascurare l'aggancio alla
speculazione teorica sul continente, ovverosia l'indagare su modelli
astratti pur se ormai siamo tutti consapevoli del loro scarso valore
epistemologico.
Uno dei modelli più forti e importanti per l'Europa
appartiene a Novalis; è importante anche per il periodo storico di
formulazione – il momento culmine dell'esperienza Romantica – il
suo saggio del 1799 che poi, ha per titolo: “La Cristianità,
ossia l'Europa”, porta innanzi un passo di valore paradigmatico
per la concezione teorica del continente.
«Erano
tempi belli, splendenti quelli dell'Europa cristiana, quando un'unica
Cristianità abitava questo continente di forma umana, e un
solo, ampio comune
disegno univa le più lontane province di questo vasto regno
spirituale. Privo di grandi possedimenti secolari, un
unico capo supremo
governava e teneva unite le grandi forze politiche».
Questo stralcio
contiene un'equazione, la quale, per la sua semplicità è
estremamente efficace: l'Europa è eguale alla Cristianità, e la
cristianità è unita. Probabilmente Novalis non inventò un bel
nulla. È più coerente in questo caso parlare di una sua re-proposal
tratta dalle osservazioni di altri pensatori del passato. Tuttavia
non si può escludere che sul finire del XVIII e l'inizio del XIX
secolo fosse una tematica capace di far presa.
C'è da dire, anche
e a “onor del vero”, di come queste poche righe di Novalis
esprimono un concentrato di concetti e ideologia che a diversi occhi
critici potrebbe far alzare più di un sopracciglio, sicuramente per
il dispotico assolutismo con cui la sua tesi e il suo concetto
vengono avanzati. Ma Novalis non era un uomo di mezze misure, la sua
visione esige categoriamente l'approvazione della condanna di Galilei
e l'elevazione di un inno in lode della Compagnia di Gesù: «con
mirabile intelligenza e costanza, con una saggezza che non s'era mai
vista, una simile Società, che non era mai apparsa prima nella
storia universale...»
Sono tutte concezioni nettamente
intransigenti,
ma con analisi equipollente e neutrale spirito critico, si farà
presente che tale presupposto ideologico è stato pure – e forse
sempre – il “motore” o la “scintilla” che ha portato altre
opere che trattavano lo stesso argomento, a essere considerate come
dei «capolavori» del settore.
Se prendiamo
un'altra opera, come “La
letteratura europea e il Medio Evo latino”
di Ernst Robert Curtius (1948), anch'essa “dotata” della stessa
intransigente concezione dell'unità europea, e giudicata da Auerbach
come: «Quest'opera intende cogliere la letteratura europea come un
tutto unico, e fondare tale unità sulla tradizione latina»; o come
nelle stesse pagine dell'opera si ritrova: «Si deve considerare il
Medio Evo nella sua continuità tanto con l'Antichità che con il
mondo moderno. Solo così si può pervenire a quello che Toynbee
chiamerebbe an
inteligible field of study.
Questo campo è, per l'appunto, la letteratura europea», si può
ipotizzare che sicuramente Curtius aveva aveva letto il saggio di
Novalis.
L'affinità
concepistica tra lui e il Romantico sembra utile incardinare anche
(anche figurativamente) l'argomento tramite l'unità
di spazio (Alla
metafora spaziale di Novalis – Roma come centro dell'Europa) che si
incastra con l'unità
di tempo (Curtius
aggiunge una catena temporale, di cui il Medioevo è l'anello
intermedio, e che conduce peraltro anch'essa a Roma), per arrivare a
dire che secondo questi due intellettuali L'Europa ha una fisionomia
spirituale sua propria perché
è una.
È un concetto
questo, di identità
assoluta. Si tratta
senza ombra di dubbio di qualcosa molto simile o molto vicino
all'Idea
dell'Idealismo dell'Ottocento, più pura e spiccata. Essa non si
lascia sfuggire l'unità complessiva anche con il periodo
precristiano, come sentenzia Curtius: «Si è europei quando si è
diventati cives
romani». Quindi
l'Europa era una anche
nell'Antichità. Tuttavia, Curtius è un critico letterario e non uno
storico, l'idea di Europa che ha in testa non corrisponde esattamente
con i confini geopolitici tipici, quelli che sono di più larga
comprensione e diffusione tra tutti. I confini dell'Europa letteraria
di Curtius sono di tipo linguistico e la sua Europa è la “Romània”
dei linguisti, cioè quel territorio del continente, grossomodo
corrispondente all'antico Impero Romano poiché spazio dove la lingua
latina si era insediata, diffusa ed era restata.
Utilizzo il termine
“restata” poiché per Curtius gli apporti del latino e della
classicità romano-cristiana sono un portato
fondante, un qualcosa
di primigenio e inscalfibile capace di resistere ai processi e ai
successivi avvenuti della storia. Per Curtius la “Romània” è
spazio unitario latino-cristiano, di cui le culture nazionali moderne
sono semplici reincarnazioni locali, non per nulla dominate da opere
universalistiche – la Commedia,
il Faust
– che vanificano l'idea di letteratura «nazionale» nell'atto
stesso in cui sembrano fondarla, c'è una sola letteratura, ed è la
letteratura europea.
Metterei evidenza
sull'aspetto dell'universalismo,
poiché credo che spesso sia il punto centrale attraverso il quale
certa teoria si rifà per giustificarsi, chi attraverso la chiamata
in causa di una missione, chi attraverso l'esaltazione di una
qualsiasi specie di ineluttabilità che una “cosa” europea
assurga a tale dimensione, quasi extra-dimensionale e imponderabile.
Secondo punto –
che già abbiamo visto in verità – spesso chiamato in causa da
questa tipologia di sostenitori dell'unità dell'Europa a qualunque
condizione, è la continuità.
Per esempio Curtius sostiene (sebbene la tesi abbia una potenza
logica inferiore a quella dell'universalismo1)
che la matrice unitaria della letteratura europea, affondando le sue
radici nei tempi dell'Impero antico di Roma, persiste e prosegue fino
a tutta l'epoca moderna, fino ai giorni suoi.
Per Curtius tutto
questo, e il senso stesso del suo lavoro di studioso, ha una valore
di salvaguardia spirituale ed etica, nella prefazione alla seconda
edizione scrive: «Questo libro non è il prodotto di finalità
puramente scientifiche, ma della preoccupazione per la salvaguardia
della civiltà occidentale. Vi si cerca di chiarire l'unità di
questa tradizione nel tempo e nello spazio. Nel caos spirituale della
nostra epoca, dimostrare tale unità è diventato necessario, ed è
anche possibile».
Il caos
a quanto pare sembra essere “il male” che cruccia profondamente
gli intellettuali qui presi in esame e molti altri a loro
aggregabili. Per esempio Eliot, di cui esiste uno splendido passo
tratto dalla sua recensione dell'Ulisse
nel quale il poeta inglese si dispera sul trovare un «modo di
controllare, ordinare, dare una forma e un significato all'immenso
panorama di futilità ed anarchia che è la storia contemporanea».
Per Novalis la causa di tutto questo è una e sola, situata a cavallo
dei secoli XVI e XVII, individuata nello Stato nazionale moderno, che
fin dai suoi inizi ha rifiutato «irreligiosamente» il primato di un
centro spirituale sovra-nazionale. Ma messa così, questa idea
europea, sembra un'idea-fantasma, un qualcosa che dovrebbe essere
quasi esclusivamente per la spinta suggestiva di una qualche
reminescente idea saturnina o saturnale di un'età dell'oro.
Non dimentichiamo
mai che Novalis, Curtius ed Eliot erano uomini dei loro tempi, e non
profeti, e quindi per il primo c'erano le vittoriose guerre
napoleoniche, e per il secondo duo le due guerre mondiali, ma oltre
questo con loro tre ci troviamo situati nella più profonda
concezione dell'ideologia di destra di tutta l'Europa intera, forse
neanche conservatrice e sicuramente neanche fascista o
nazional-socialista2,
ma prettamente di stampo reazionario.
Questo perché: la cultura europea esiste solo
in quanto unità (latina
o cristiana, o quello che si vuole, se si trascende verso la
concezione “artefatta” nel nazionalismo), e allora lo Stato
nazionale moderno è la vera e propria negazione
dell'Europa. Forse la
cosa valeva anche per un britannico come Eliot, ai tempi suddito del
più grande impero del mondo, ma che non era mai riuscito a essere
universale e forse nessuno l'aveva mai veramente pensato tale. In
questo quadro premoderno, o più precisamente anti-moderno,
non si dànno vie di mezzo. L'Europa è un tutto organico3,
oppure non è. Esiste se non esistono gli Stati e viceversa: quando
questi emergono, quella perisce, e potrà solo essere reimpiantata,
come già nell'incipit elegiaco di Novalis. Il suo lamento per un
mondo che ha perso l'anima: non più «abitata» dal grande disegno
disegno cristiano, l'Europa è stata dannata ad essere mera materia:
spazio senza senso.
Siamo
quindi arrivati a definire tre intellettuali del passato come
reazionari antimoderni. Questa Destra (con la maiuscola e senza
virgolette) dovrebbe essere frutto del pensiero idealistico del
Romanticismo poi seguitata quasi inalterata per quasi due secoli e
qualcosa. Selezioniamo quindi
un'altra “voce di un'epoca”, o più precisamente di una
generazione, quella immediatamente successiva a Novalis: Guizot nel
1828. Il famoso storico francese sostiene che: «Nella
storia dei popoli non
europei,
la coesistenza e il conflitto di principi diversi non
sono stati che crisi passeggere4».
Quel
“non”
in corsivo è mio, l'ho evidenziato perché lo storico a quanto pare
parte senza concedere alcun punto di contatto con Novalis; non
condivide la “estendibilità” della sua osservazione sulla
capacità delle popolazioni extra-europee di mantenere la loro
omogeneità neanche per l'era europea che Novalis sussumeva sotto
l'aggettivo “unico” ripetuto più e più volte.
Dobbiamo
credergli davvero? Siamo di fronte a un altro intransigente che dice
solo qualcosa di di diverso? Però quando al capoverso successivo (di
qualche pagina) scrive: «Tutto al contrario nella civiltà
dell'Europa moderna» pare “sfuggirgli” la parola «moderna»
come non fosse proprio sicuro di quello che aveva scritto poc'anzi.
Inoltre, il
panorama di Guizot vedeva, era consistente in:
Fin
dal primo sguardo [l'Europa moderna?] appare varia, confusa,
tempestosa; tutte le forme, tutti i principi di organizzazione
sociale vi coesistono; il potere spirituale e temporale, l'elemento
teocratico, tutte le classi, tutte le situazioni sociali si mescolano
e si affollano; vi sono infinite gradazioni di libertà, di ricchezza
e di potere. Tra queste forze esiste un conflitto perpetuo, e nessuna
di loro riesce a soffocare le altre, e ad impadronirsi da sola della
società nel suo insieme. Nelle idee e nei sentimenti dell'Europa,
stessa diversità, stessa lotta. Concezioni teocratiche, monarchiche,
aristocratiche, popolari, si incrociano e si combattono.
Vorrei fa notare
una cosa: Guizot scrive questa panoramica sulla civiltà europea
esattamente venti anni prima che il continente europeo venisse scosso
nuovamente da quell'ondata di rivoluzioni profondamente sommovitrici
delle coscienze di tutte le classi sociali. In altre parole, vorrei
invitare a non fare confusione, a non travisare attribuendo a queste
righe un'interpretazione che non gli appartiene. A me infatti,
piuttosto che una visione infausta e apocalittica, mi pare che Guizot
descriva un'Europa dinamica, che si stava gonfiando per un'esplosione
non solo politica ma anche economica.
Fatto
sta che il “dinamismo” è considerato in modo ben diverso qui:
Nella Cristianità,
differenze e conflitti uccidevano l'Europa; in Guizot la fanno
nascere. L'Europa – “questa Europa”? – è nata dalle ceneri:
dalla disfatta dell'universalismo romano-cristiano.
Abbiamo
un'altra serie di autori, scrittori, pensatori e uomini politici che
accolgono tra le braccia un senso di discontinuità
che Novalis non è stato in grado di né di negare né di
assotterrare. Di buon grado questi rinunciano e svolgono le esequie
dell'Idea.
Inutile, dunque, cercare il
segreto
in un luogo,
o valore, o istituzione quale che sia. Meglio abbandonare del tutto
l'idea di un centro, o di un'«essenza» europea, e vederla piuttosto
come un politeistico campo di forze.
Ma
così come ho voluto frenare sul passo di Guizot: non è questo il
caso di sbilanciarsi ad attribuire etichette a questa linea di
pensiero, soprattutto affastellando tutto e tutti in quella categoria
di critici sociali che riducono tutto al puro movimento economico,
come certe letture della storia sono use propinarci.
Diverse potevano
essere le opinioni, le vedute, i punti i partenza di questi studiosi.
Per Barraclough: «L'idea di Europa come entità specifica è
post-classica. Fu creata nel Medioevo. In termini generali, è il
risultato del crollo dell'universalismo dell'impero romano». E più
di altro l'impero Carolingio «non fu un inizio, ma una conclusione.
Da allora in poi, l'unità europea implica l'articolazione delle
differenze regionali, non la loro soppressione» (Geoffrey
Barraclough, European Unity in Thought and Action, Oxford,
1963, pp. 7, 12-13).
Nel caso di questo
intellettuale inglese, l'attenzione è posta sulla dissoluzione di
una istituzione centralizzata (che forse è considerata fin troppo
unitaria e organica) per lasciare spazio alla differenziazione
regionale che poi ha creato un sistema integrato, sull'esempio di
quel modello che fu l'Europa dei centri urbani del Secolo XIII e XIV.
Considerazioni
simili a queste in un'altra opera largamente ispirata a Guizot, la
“Storia dell'Idea di
Europa” di Federico
Chabod, (Bari, 1961), mentre Immanuel Wallerstein ha riformulato
questa tesi in termini di storia economica, definendo il capitalismo
moderno come quel rapporto sociale «che si afferma in uno spazio più
vasto di quanto possa essere controllato da una qualsivoglia entità
politica»: agli Stati divisi dell'Europa cinque-seicentesca fu
dunque possibile quel decollo che i grandi imperi asiatici,
politicamente uniti, non riuscirono mai a compiere (The
Modern World System,
New Yor-San Francisco-London, 1974, pp. 348, 61-63). Sul confronto
che Wallerstein fa tra il sistema
Europa-frammentato e
i colossi orientali
unificati, ci sarebbe
moltissimo da approfondire, soprattutto dal punto di vista delle
strutture economiche. Due le osservazioni che arrivano subito: la
caduta del sistema feudale è stato davvero l'elemento determinante
che ha differenziato l'Occidente dall'Oriente? E poi, è innegabile
che quella frase di Wallerstein richiama immediatamente quella di
Guizot.
Ultimo – per il
momento – storico da citare è Edgar Morin: «Tutto ciò che
semplifica l'Europa – idealizzazione, astrazione o riduzione – la
mutila. L'Europa è un Complesso (complexus: cioè che è
tessuto insieme) il cui carattere è di riunire insieme senza
confonderle le più grandi diversità e di associare i contrari in
maniera non separabile»5
È
da questo ultimo passo, visto che di complesso in qualità di tessuto
si parlava, è possibile trovare la “tela”, il pezzo di stoffa
malleabile con cui modellare l'idea d'Europa, che in quanto
complesso, è difficile da ridurre in elementi; serve uno sforzo
mentale per immaginarsi la definizione “in funzione”. Come ogni
sistema complesso, l'Europa cambia col tempo, con particolare
velocità a partire dal secolo XVI, la sua identità non si definisce
nonostante le metamorfosi, ma nelle
metamorfosi. Accident
Prone,
facile agli incidenti, come la chiamerebbe una compagnia di
assicurazione, questa Europa non vuole evitare
1Apro
qui una nota perché la “forza” della tesi di Curtius merita
d'essere spiegata. E, in effetti, quando si chiamano in causa opere
come quella di Dante o di Goethe, lasciando intendere che “come
queste opere, strepitose e insigni, diventano dei paradigmi
letterari, linguistici e culturali per le comunità natie di tali
eccelsi artisti, tutto questo viene immediatamente dissolto
dal pinnacolo universalistico verso il quale proprio gli eccelsi
tendono”, è senza dubbio un'analisi importante e difficile da
scardinare restando sulla stessa lunghezza d'onda della tesi.
2Infatti,
l'idea di collegare Novalis e la sua concezione a queste due
ideologie è decisamente velleitaria, per non dire che sarebbe un
errore storico enorme e banale, in quanto i fascismi e i
nazionalsocialismi sono fenomeni storici sorti in modo concreto nel
XX secolo, e la loro nascita fu uno sbocco di tante discontinuità
storiche nell'ordine sociale, politico e culturale dell'Occidente.
3Questo
concetto, il “Tutto-Organico” mi era sfuggito precedentemente;
si tratta di una concezione molto forte, specie nella sociologia del
XIX, la quale si soffermò parecchio sulla cosiddetta “società
organica” specie di stampo “primitivo” vista agli albori della
ricerca antropologica.
4François
Guizot, Historie de la Civilisasion en Europe,
1828, 6a
ed., Paris 1855, pp. 35, 37-38.
5Edgar
Morin, Pensare l'Europa,
1987, trad. it., Milano 1988, p.22.
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