Modernismo e
Metropoli
James Joyce e Franz
Kafka: i due massimi innovatori del romanzo novecentesco. Si può
dire che procedono concordi nella medesima direzione? Niente affatto.
Ignoti l'uno all'altro, cominciano sì a scrivere i loro capolavori
negli stessi identici mesi: ma Ulisse si apre poi a una
polifonia che moltiplica i gerghi e le chiacchiere, mentre Il
processo si stringe intorno a una Legge segreta e muta.
All'euforia onnivora e un po' chiassosa dello stream of
consciouness si contrappongono le sottili cautele
dell'interpretazione. Alla totale ironia del plurilinguismo, la
terribile serietà dell'allegoria. Allo spazio privato della psiche
metropolitana, lo spazio pubblico, ieratico-politico del Tribunale. E
se dal 1914 passiamo al 1922, La terra desolata e le Elegie
Duinesi, pubblicare entrambe in quell'anno offrono una
configurazione analoga?.
Da cosa dipende
questo improvviso ripetersi della stessa configurazione tecnica?
Vogliamo invocare il radicalismo davvero inconsueto del mondo
artistico d'inizio secolo? Benissimo; ma quel radicalismo come lo
spieghiamo? Bisogna dare una ragione a tutto questo, ma forse non c'è
ragione – o meglio non c'è una “ragione filosofica”.
Forse la cosa
migliore è rivolgersi ancora una volta alla teoria evolutiva, che,
dovendo spiegare la coesistenza di forma estremamente diverse non va
in cerca di una ragione insita negli estremi in quanto tali, o nel
loro significato specifico, ma di una condizione sistematica
complessiva. Quando un sistema emerge per la prima volta esso
sperimenta tutti i limiti del possibile. Ma molte variazioni non
funzionano: le soluzioni migliori si fanno strada, e la diversità
diminuisce.
Molte variazioni
non funzionano. Sappiamo tutti, oggi, dello Stream of consciusness
di Joyce: I lauri tagliati, The Making of the Americans, o La
morte di Virgilio sono già opere da specialisti; certi romanzi
francesi degli anni Venti, influenzati dall'Ulisse (Yeux de
dis-huit ans, 5000, Amants, beureux amants) nessuno sa neanche
più che siano stati scritti. Quando verrà il giorno della
paleontologia letteraria, questi fossili di biblioteca ci aiuteranno
a capire per quale ragione una soluzione tecnica abbia prevalso sulle
altre, e a precisare il senso della nostra evoluzione culturale. Come
la storia della vita, quella della letteratura è infatti un
gigantesco mattatoio di possibilità recise sul nascere, e ciò che
essa ha escluso ne rivela le leggi non meno di ciò che ha premiato.
Il modernismo
dinamizza zone atipiche e relativamente vuote, come la Dublino
di Joyce e la Praga di Kafka: capitali di stati inesistenti. Ma
questo lo si potrebbe spiegare altrettanto bene (e forse meglio) con
la tendenza generale all'allargamento dell'Europa – dalla Romània
ai primi Stati nazionali, dal Nord borghese ai nazionalismi
ottocenteschi all'ingresso della Russia. L'Europa del primo Novecento
è spazialmente piena, ha disteso i suoi confini al massimo
possibile, giungendo all'Asia con l'inclusione della Russia nel suo
sistema. Ed essendo un sistema ormai funzionante in base a precisi
meccanismi, questi gli fanno prendere corpo, se vogliamo:
spessore, oppure profondità. La ragione dell'esplosione modernista
non dobbiamo cercarla in un nuovo spazio geografico, ma in spazi
sociali nuovi dentro la geografa vecchia. Uno spazio di pubblico, per
prima cosa: come già per la tragedia barocca e poi per il romanzo,
un nuovo pubblico offre un ecosistema più libero, più ospitale, con
maggiori chances di sperimentazione formale. Soprattutto
questo pubblico, che, a differenza di altri, vuole essere un
vero e proprio antimercato, e rifiuta la standardizzazione del gusto.
Lo ispira – che lo si sappia o meno – la parola d'ordine coniata
da Viktor Šklovskij, il più geniale teorico dell'epoca:
straniamento.
Un manipolo di
nuove forme narrative – melodramma, gotico, feuilleton, poliziesco,
fantascienza – cattura milioni e milioni di lettori, preparando il
terreno all'industria del suono e dell'immagine. È un tradimento
della letteratura, come per molto tempo ha sostenuto la critica
colta? Ma no, è piuttosto che l'immaginazione realistica mostra qui
i suoi limiti: a suo agio in un mondo solido e ben regolato, che
contribuisce rendere ancora più tale, essa non sa come affrontare le
situazioni estreme, e le semplificazioni terribili, che a volte la
storia impone. È incapace di rappresentare l'Altro nell'Europa e –
cosa ancor più grave – l'Altro nell'Europa e allora ci pensa la
letteratura dei massa. Lotta di classe e morte di Dio, ambiguità del
linguaggio e seconda rivoluzione industriale: è perché parla di
tutte queste cose che la letteratura di massa ha successo. È perché
sa parlare in cifra, naturalmente: con figure retoriche e artifici
d'intreccio che ne velano i significati profondi, e operano nella
sostanziale inconsapevolezza di chi legge. Ma in letteratura
ciò è in una certa misura sempre vero, e la vecchia scomunica
contro la letteratura di massa ormai appartiene davvero al passato.
Secondo l'ipotesi
di Mannhein sul rapporto tra capitalismo e cultura, quanto più
esteso e solido diventa il tessuto dei vincoli economici, tanto meno
le società europee esigono una rigida ortodossia simbolica per
mantenersi unite. La cultura viene esentata da obblighi politici:
diminuisce la sorveglianza, si abbassa la pressione selettiva – e
possono aumentare esperimenti e bizzarrie. L'arte diventa uno spazio
protetto, neutralizzato: una splendida superfluità che perduto il
suo pungiglione, in una sorta di tacito patto col diavolo, nulla le è
proibito, poiché nulla di quello che fa ha davvero importanza. Per
la prima generazione è la felicità. Ma nel vuoto non si respira, e
non ci vuole molto perché la letteratura europea scopra di non avere
più nulla da dire.
Dopo l'Europa delle
Corti, la Replublique des Lettres, il mondo luterano della
tragedia sette-ottocentesca, le grandi nazioni esplorate dal romanzo,
nasce l'Europa delle Capitali. Queste Europe nascono in successione,
una dopo l'altra; però coesistono anche per lunghi tratti. La
coabitazione di spazi (formali) sempre più eterogenei entro uno
spazio (geografico) che resta immutato ha conferito al sistema
letterario un dinamismo e una complessità crescenti. Ma più che
l'Europa delle capitali è meglio dire “delle metropoli”: Milano
più di Roma, Barcellona più di Madrid, Pietroburgo più di Mosca.
Questo conferma in modo perfetto la tesi dello spazio europeo che si
inspessisce dopo essersi riempito, mentre sarebbe da approfondire il
motivo sul perché le capitali nazionali (salvo Parigi e Londra) in
qualità di centri amministrativi e politici, non riescono a ottenere
anche lo status di capitali culturali.
Forse perché il
vero legame delle metropoli non è all'interno (verso la provincia o
la campagna) come lo doveva essere per le capitali amministrative;
quindi le metropoli erano più “libere” di spaziare laddove le
loro singole propensioni le spingevano, ovverosia: verso l'Europa,
per la precisione il Nord del continente. Forse proprio verso Londra
e Parigi, le uniche due città che univano le due vocazioni, e ancor
più con altre metropoli, magari lontanissime nello spazio fisico –
ma vicine e quasi gemelle in quello culturale – sotto il segno
della metropoli, anzi, gli stessi confini d'Europa cominciano a
perdere di significato: per l'avanguardia Parigi è più vicina a
Buenos Aires che non a Lione, eccetera...
C'era una sintonia
tra modernismo e metropoli data da:
- un comune entusiasmo per la divisione del lavoro, base dello specialismo che è una delle caratteristiche fondamentale per la tecnica.
- la grande città protegge ciò che è insolito e lo aiuta a diventare ancora più insolito.La civiltà progredisce grazie alla differenziazione, e la metropoli ne è l'agente più efficace. La medietà provinciale viene qui trasformata in altissimo talento, o criminalità efferata. Un genio può benissimo nascere in campagna, ma solo la città lo porterà alla luce e gli permetterà di svilupparsi... proprio come trasformerà il ladruncolo di paese nello svaligiatore di banche1.
- la metropoli di inizio secolo è anche un grande luogo, vi si moltiplicano gli artisti di formazione letteraria mondiale già intravisti da Nietzsche, e si diffonde quello che Enzensberg ha chiamato: «il linguaggio universale della poesia moderna» Questa strana lingua franca, che mescola oscurità ed efficacia sembra annullare le distanze; sono i futuristi italiani che scrivono i loro proclami in francese e vengono subito letti dai russi; il rumeno Tzara, che inventa nella Zurigo tedesca l'antilingua Dada; il surrealismo francese, che darà il meglio di sé nella narrativa americana di lingua spagnola.
1Adna
F. Weber, The Growth of cities in the nineteenth Century, New
York, 1899, p.442.
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