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Ditesti

martedì 16 aprile 2013

Appunti sullo spirito della storia europea (5 di 6)


Modernismo e Metropoli
James Joyce e Franz Kafka: i due massimi innovatori del romanzo novecentesco. Si può dire che procedono concordi nella medesima direzione? Niente affatto. Ignoti l'uno all'altro, cominciano sì a scrivere i loro capolavori negli stessi identici mesi: ma Ulisse si apre poi a una polifonia che moltiplica i gerghi e le chiacchiere, mentre Il processo si stringe intorno a una Legge segreta e muta. All'euforia onnivora e un po' chiassosa dello stream of consciouness si contrappongono le sottili cautele dell'interpretazione. Alla totale ironia del plurilinguismo, la terribile serietà dell'allegoria. Allo spazio privato della psiche metropolitana, lo spazio pubblico, ieratico-politico del Tribunale. E se dal 1914 passiamo al 1922, La terra desolata e le Elegie Duinesi, pubblicare entrambe in quell'anno offrono una configurazione analoga?.
Da cosa dipende questo improvviso ripetersi della stessa configurazione tecnica? Vogliamo invocare il radicalismo davvero inconsueto del mondo artistico d'inizio secolo? Benissimo; ma quel radicalismo come lo spieghiamo? Bisogna dare una ragione a tutto questo, ma forse non c'è ragione – o meglio non c'è una “ragione filosofica”.
Forse la cosa migliore è rivolgersi ancora una volta alla teoria evolutiva, che, dovendo spiegare la coesistenza di forma estremamente diverse non va in cerca di una ragione insita negli estremi in quanto tali, o nel loro significato specifico, ma di una condizione sistematica complessiva. Quando un sistema emerge per la prima volta esso sperimenta tutti i limiti del possibile. Ma molte variazioni non funzionano: le soluzioni migliori si fanno strada, e la diversità diminuisce.
Molte variazioni non funzionano. Sappiamo tutti, oggi, dello Stream of consciusness di Joyce: I lauri tagliati, The Making of the Americans, o La morte di Virgilio sono già opere da specialisti; certi romanzi francesi degli anni Venti, influenzati dall'Ulisse (Yeux de dis-huit ans, 5000, Amants, beureux amants) nessuno sa neanche più che siano stati scritti. Quando verrà il giorno della paleontologia letteraria, questi fossili di biblioteca ci aiuteranno a capire per quale ragione una soluzione tecnica abbia prevalso sulle altre, e a precisare il senso della nostra evoluzione culturale. Come la storia della vita, quella della letteratura è infatti un gigantesco mattatoio di possibilità recise sul nascere, e ciò che essa ha escluso ne rivela le leggi non meno di ciò che ha premiato.
Il modernismo dinamizza zone atipiche e relativamente vuote, come la Dublino di Joyce e la Praga di Kafka: capitali di stati inesistenti. Ma questo lo si potrebbe spiegare altrettanto bene (e forse meglio) con la tendenza generale all'allargamento dell'Europa – dalla Romània ai primi Stati nazionali, dal Nord borghese ai nazionalismi ottocenteschi all'ingresso della Russia. L'Europa del primo Novecento è spazialmente piena, ha disteso i suoi confini al massimo possibile, giungendo all'Asia con l'inclusione della Russia nel suo sistema. Ed essendo un sistema ormai funzionante in base a precisi meccanismi, questi gli fanno prendere corpo, se vogliamo: spessore, oppure profondità. La ragione dell'esplosione modernista non dobbiamo cercarla in un nuovo spazio geografico, ma in spazi sociali nuovi dentro la geografa vecchia. Uno spazio di pubblico, per prima cosa: come già per la tragedia barocca e poi per il romanzo, un nuovo pubblico offre un ecosistema più libero, più ospitale, con maggiori chances di sperimentazione formale. Soprattutto questo pubblico, che, a differenza di altri, vuole essere un vero e proprio antimercato, e rifiuta la standardizzazione del gusto. Lo ispira – che lo si sappia o meno – la parola d'ordine coniata da Viktor Šklovskij, il più geniale teorico dell'epoca: straniamento.
Un manipolo di nuove forme narrative – melodramma, gotico, feuilleton, poliziesco, fantascienza – cattura milioni e milioni di lettori, preparando il terreno all'industria del suono e dell'immagine. È un tradimento della letteratura, come per molto tempo ha sostenuto la critica colta? Ma no, è piuttosto che l'immaginazione realistica mostra qui i suoi limiti: a suo agio in un mondo solido e ben regolato, che contribuisce rendere ancora più tale, essa non sa come affrontare le situazioni estreme, e le semplificazioni terribili, che a volte la storia impone. È incapace di rappresentare l'Altro nell'Europa e – cosa ancor più grave – l'Altro nell'Europa e allora ci pensa la letteratura dei massa. Lotta di classe e morte di Dio, ambiguità del linguaggio e seconda rivoluzione industriale: è perché parla di tutte queste cose che la letteratura di massa ha successo. È perché sa parlare in cifra, naturalmente: con figure retoriche e artifici d'intreccio che ne velano i significati profondi, e operano nella sostanziale inconsapevolezza di chi legge. Ma in letteratura ciò è in una certa misura sempre vero, e la vecchia scomunica contro la letteratura di massa ormai appartiene davvero al passato.
Secondo l'ipotesi di Mannhein sul rapporto tra capitalismo e cultura, quanto più esteso e solido diventa il tessuto dei vincoli economici, tanto meno le società europee esigono una rigida ortodossia simbolica per mantenersi unite. La cultura viene esentata da obblighi politici: diminuisce la sorveglianza, si abbassa la pressione selettiva – e possono aumentare esperimenti e bizzarrie. L'arte diventa uno spazio protetto, neutralizzato: una splendida superfluità che perduto il suo pungiglione, in una sorta di tacito patto col diavolo, nulla le è proibito, poiché nulla di quello che fa ha davvero importanza. Per la prima generazione è la felicità. Ma nel vuoto non si respira, e non ci vuole molto perché la letteratura europea scopra di non avere più nulla da dire.
Dopo l'Europa delle Corti, la Replublique des Lettres, il mondo luterano della tragedia sette-ottocentesca, le grandi nazioni esplorate dal romanzo, nasce l'Europa delle Capitali. Queste Europe nascono in successione, una dopo l'altra; però coesistono anche per lunghi tratti. La coabitazione di spazi (formali) sempre più eterogenei entro uno spazio (geografico) che resta immutato ha conferito al sistema letterario un dinamismo e una complessità crescenti. Ma più che l'Europa delle capitali è meglio dire “delle metropoli”: Milano più di Roma, Barcellona più di Madrid, Pietroburgo più di Mosca. Questo conferma in modo perfetto la tesi dello spazio europeo che si inspessisce dopo essersi riempito, mentre sarebbe da approfondire il motivo sul perché le capitali nazionali (salvo Parigi e Londra) in qualità di centri amministrativi e politici, non riescono a ottenere anche lo status di capitali culturali.
Forse perché il vero legame delle metropoli non è all'interno (verso la provincia o la campagna) come lo doveva essere per le capitali amministrative; quindi le metropoli erano più “libere” di spaziare laddove le loro singole propensioni le spingevano, ovverosia: verso l'Europa, per la precisione il Nord del continente. Forse proprio verso Londra e Parigi, le uniche due città che univano le due vocazioni, e ancor più con altre metropoli, magari lontanissime nello spazio fisico – ma vicine e quasi gemelle in quello culturale – sotto il segno della metropoli, anzi, gli stessi confini d'Europa cominciano a perdere di significato: per l'avanguardia Parigi è più vicina a Buenos Aires che non a Lione, eccetera...

C'era una sintonia tra modernismo e metropoli data da:
  1. un comune entusiasmo per la divisione del lavoro, base dello specialismo che è una delle caratteristiche fondamentale per la tecnica.
  2. la grande città protegge ciò che è insolito e lo aiuta a diventare ancora più insolito.
    La civiltà progredisce grazie alla differenziazione, e la metropoli ne è l'agente più efficace. La medietà provinciale viene qui trasformata in altissimo talento, o criminalità efferata. Un genio può benissimo nascere in campagna, ma solo la città lo porterà alla luce e gli permetterà di svilupparsi... proprio come trasformerà il ladruncolo di paese nello svaligiatore di banche1.
    1. la metropoli di inizio secolo è anche un grande luogo, vi si moltiplicano gli artisti di formazione letteraria mondiale già intravisti da Nietzsche, e si diffonde quello che Enzensberg ha chiamato: «il linguaggio universale della poesia moderna» Questa strana lingua franca, che mescola oscurità ed efficacia sembra annullare le distanze; sono i futuristi italiani che scrivono i loro proclami in francese e vengono subito letti dai russi; il rumeno Tzara, che inventa nella Zurigo tedesca l'antilingua Dada; il surrealismo francese, che darà il meglio di sé nella narrativa americana di lingua spagnola.


1Adna F. Weber, The Growth of cities in the nineteenth Century, New York, 1899, p.442.

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