L'Imperialismo
«Ho più ricordi
che se avessi mille anni», inizia uno Spleen di Baudelaire.
All'Europa – scrive Hans Bluemberg nel suo grande studio sulla
legittimazione simbolica dell'età moderna – non è mai dato di
ricominciare da zero. Se anche il passato non domina più il
presente, purtuttavia vi permane: la nuova epoca nasce nel
vecchio mondo, intrappolata in un vero e proprio paradosso
spazio tempo. Ernst Bloch e Reinhardt Koselleck – che lo hanno
battezzato «contemporaneità del non contemporaneo» vi vedono una
sfasatura per il pensiero politico europeo.
Tutto inizia con il
gigantesco e disomogeneo del Faust, dove un uomo del moderno
affronta il passato classico e medievale: e lo esorcizza, lo
conquista, e infine (ma mai del tutto) lo perde anche. Il poema
goethiano è l'opera esemplare di un mondo che sta inventando il
museo, e vi cristallizza la propria ambivalenza verso un passato che
non si decide a scomparire. Si deve venerare il passato come una cosa
sacra, ci dice il museo, ma dopo averlo rinchiuso in enormi prigioni
marmoree.
Proprio come nel
bricolage mitico, o nell'allegoria del Faust, nel museo
i significati dell'antico diventano significati del moderno; faccia a
faccia con oggetti divelti dal loro mondo l'immaginazione europea
acquista una libertà estrema, persino irresponsabile, nei confronti
del materiale storico. Si sarebbero fatti i baffi alla Gioconda se
non fosse stata in un museo?
Museo e
avanguardia, insospettabili complici di una riorganizzazione violenta
del passato. Ma è solo il passato ad essere in gioco, nella
contemporaneità del non-contemporaneo? I grandi musei ottocenteschi
sorgono a Londra, Parigi, Berlino, e si riempiono di oggetti che
vengono dalla Grecia, da Roma: Europa mediterranea trascinata con la
forza al nord. E poi Egitto, Assiria, Persia, India, Cina... […] la
sottomissione del passato – la seduzione di Elena di Grecia –
figura della conquista del mondo. E così, nell'attimo stesso in cui
nasce, la creatura sognata da Goethe ci impone subito una domanda –
Weltliteratur: letteratura mondiale, letteratura dell'umanità?
O letteratura dell'imperialismo?
Senza imperialismo,
insomma, niente modernismo, perché l'Europa è ridiventata piccola.
Non riesce più a bastare a se stessa, non sa più inventare il
nuovo. A inizio del Novecento la genesi del nuovo coincide quasi
sempre con la riscoperta del primitivo.
La tragedia barocca
la strappa dall'eredità classica; il romanzo la radica saldamente
nel presente; il Faust si mette addirittura a giocare con
materiali storici un tempo venerabili. Non c'è dubbio, il distacco
dal passato ha avuto successo. Troppo successo, forse, come
tante altre imprese europee di analoga natura? Si direbbe proprio di
sì. E dallo sgangherarsi della continuità storica scaturisce quel
fortissimo bisogno di mito che, in molti modi diversi,
caratterizza il modernismo. Mito come profondità, ordine, unità
primigenia: ma anche come inventiva visionaria, compressione
esplosiva di contrari che fa la grandezza (e l'ambiguità) di tante
avanguardie – e che porta il segno di un'Europa in bilico tra
dittatura e anarchia.
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