La
tragedia barocca è una delle prime espressioni del policentrismo
europeo, un policentrismo che poi andrà a sistema, ma non
almeno finché non si vedrà la fine del XVIII secolo. Fino ad allora
il
sistema europeo è ad uno stadio ancora solo potenziale; gli elementi
sono già tutti al loro posto, ma manca l'interruttore che li
colleghi. E che l'Europa letteraria sia la somma delle sue parti, ma
non molto di più, è dopotutto quello che ci dice anche il suo primo
storico, Henry Hallam, nei quattro lunghi volumi della
Introduction to the Literature of Europe in the fifteenth, sixteenth,
and seventeenth centuries1.
Con implacabile puntualità, Hallam ritaglia il corso storico ogni 10
(o 30, o 50) anni e ripete ogni volta, per le cinque grandi aree
dell'Europa occidentale, un minuzioso giro d'orizzonte. Ma la
contiguità spaziale non trapassa mai in integrazione funzionale:
l'Europa di Hallam è un'addizione meccanica, che non aggiunge nulla
a quanto già esistente nelle sue parti staccate.
Quindi può
esistere un modello che piuttosto delle nature del continente, si
interessa della dinamica che la letteratura europea assume quando,
l'Europa prende la sua forma. È un modello che vede tutto nascere
dalla suddivisione dello spazio Europeo, attraverso il sorgere sia
dei primi veri Stati moderni che delle entità politiche rette dal
sistema dei principati. Questo, nel corso del tempo, fa maturare un
policentrismo che ancora una volta divide l'Europa in cinque grandi
aree, ed è la dinamica che va dal '400 al '700 dove le diverse
produzioni letterarie sussistono, coesistono e rivaleggiano ma si
scambiano poco tra loro.
Domanda: quanto
invece, degli altri aspetti del discorso culturale sfugge a questa
ipotesi? Consideriamo che la letteratura rispetto alla politica può
essere ed apparire come un “bene voluttuario” necessario alle
società in base a quanto le società stesse hanno disponibilità di
interessarsene, mentre la riflessione sociale e la progettualità
politica possono avere altri canali di percorrenza e ragioni più
stringenti per attuare le loro messa a sistema ben prima dei fenomeni
culturali dediti alla ricreazione poiché, riflessione e
progettazione sono cose che accompagnano le relazioni internazionali
tra gli Stati, gli scambi e i commerci.
Un altro pezzettino
di dinamica prima del Secolo XVIII è priva di legami interni, è una
costruzione di grande ampiezza, ma strutturalmente debole: facile
preda del contrattacco classicista, con cui lo sviluppo si arresta
per circa un secolo e mezzo, poi nasce la Repubblica delle
Lettere.
L'Europa colta non
è mai stata così unita come nell'Age Classique. Ma tale
unità impone un drastico sacrificio di diversità. Ne fa fede la
semantica della parola chiave dell'epoca: cosmopolita. Citizen of
the world lo definisce nel 1755 il Dizionario di Samuel Johnson,
cittadino del mondo. Ma è difficile dare un senso concreto a tale
cittadinanza, nel 1762, l'Académie Française cambia
strategia, e passa alla definizione in negativo: cosmopolita è colui
che «qui n'adopte point de patrie», che non fa sua alcuna
patria2.
Invece di essere ovunque a casa propria, costui non lo è mai da
nessuna parte; e se Johnson voleva includere tutto il pianeta,
l'accademia procede per contro a cancellare gli Stati nazionali.
Abbiamo un inglese,
un francese e anche un tedesco: «per tendere al bene dell'umanità –
Leibniz – il cosmopolita dovrà essere indifferente a ciò che
caratterizza un francese da un tedesco».
Tuttavia, al di
sopra del problema di definizione il primo aspetto della Repubblica
delle Lettere appare abbastanza chiaro, c'è l'indirizzamento
dell'uomo colto europeo verso tematiche grandi e universali, perché
non per caso si usano termini come «umanità», attestando il
desiderio di usare uno sguardo d'insieme. Ma che significa, nel
contesto concreto dell'Europa settecentesca, «umanità in
generale»?» Si può spiegare che dietro a bei proclami, fatalmente,
ci sarà la versione – astratta e normativa insieme – di una
letteratura nazionale particolarmente potente ed ambiziosa, che
quindi poco cambia rispetto alle promesse fatte.
È opinabile
pensare la Republique des Lettres erede della Res Publica
Cristiana, proprio come il francese è l'erede del latino in
qualità di lingua sacra dello spirito, poiché è una visione
passabile solo se la si intende in modo ironico. Quindi quello che si
capisce consiste nel fatto che i fautori della Repubblica delle
Lettere avevano sì ambizioni di tipo universalistico, ma di
carattere invasivo-espansivo, partendo dalla propria
cultura nazionale. Come per molti altri processi e dispute di
lungo periodo e di largo raggio della storia europea, il tentativo di
questi settecenteschi esula totalmente dall'idea di una
rielaborazione organica e sincretistica delle varie componenti
dell'Europa, “sfasciata”, divisa e frammentata, alla ricerca di
quelle comunanze capaci di rimetterla in sesto. Anche il continuo
richiamo all'epoca Antica non ha niente di universale (o di
messianico), ma semplicemente si reitera quel tentativo di arrogarsi
tout court una vestigia del passato per il prestigio di essere
eredi ed epigoni prosecutori.
Questo – senza
mettersi a pensare se sia stato un fallimento o meno – è quanto
accadde per la Francia del '700 che impose la sua egemonia culturale,
per la quale in numerosi paesi europei, classico e francese
divenivano sinonimi.
Egemonia letteraria
francese; e non solo letteraria, diranno le guerre napoleoniche e
facendo un salto diretto alle conclusioni, sorvolando sulle possibili
vedute alternative che proprio in Francia potevano esserci prima che
essa produca uno sconvolgimento epocale, potremmo essere di fronte
all'ultimo tentativo di fare dell'Europa un tutto unico, di imporle
la stessa uniformità che si va affermando nelle culture nazionali.
Il tentativo fallisce, naturalmente; ma la cosa interessante è che
fu possibile concepirlo, o meglio; che fu possibile alla Francia
di concepirlo.
Alla Francia va
attestato un ruolo particolare nella cultura europea, citando
Auerbach:
La
preponderanza di materiali romanzi in Mimesis si spiega con il
fatto che, su scala europea, le letterature romanze sono nella grande
maggioranza dei casi più rappresentative di quelle germaniche. Nel
XII e XIII secolo il ruolo di guida spetta indiscutibilmente alla
Francia, e poi passa all'Italia per i due secoli seguenti; nel corso
del XVII secolo torna alla Francia, e così per il secolo successivo
e anche per l'Ottocento, almeno per quanto attiene alla genesi e allo
sviluppo del realismo moderno.
La letteratura
francese è più che ogni altra vicina al cuore d'Europa e
togliendole quell'aria di “pretesa” diventa una grande
letteratura nazionale, impegnata a civilizzare l'«intero
continente». Questo perché è un grande Stato nazionale
innanzitutto, e questo la avvantaggia sull'Italia, la sua diretta
rivale all'uscita del Medio Evo, e sulle aree di lingua tedesca.
Quanto poi a Spagna e Inghilterra, è più popolata di loro; dispone
di un più ampio spazio pubblico. Poi la geografia, decisiva in un
mondo dove libri e idee si spostano con grande lentezza: e la Francia
è lì, nel mezzo del crocevia occidentale.
E ancora poi: la
tradizione letteraria su cui non incombe nessun Dante, Shakespeare, o
Goethe, nessun Siglo de Oro. Libera dal peso di modelli
ineguagliabili, la letteratura francese è più agile delle altre. E
infine grande Stato, sì, però mai egemone in campo
politico-economico; eterna seconda, dunque sempre in tensione, non è
da escludere che questo relativo insuccesso surriscaldi il mondo
della cultura, nella speranza di trovarvi (come altrove è stato)
quegli stimoli in più che le permetteranno di primeggiare nella
rivalità europea».
1London
1837-39; Reprint, New York – London 1970.
2Che
rigetta l'appartenenza a una patria, ma che “tipo” di patria,
che processo di affiliazione patriottica c'era ai tempi?
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