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Ditesti

sabato 21 aprile 2012

deserto di serenità

Secondo voi, per trasformarmi in Paolo Augusto, gli occhiali li devo togliere o mettere? Devo far uscire il pezzo di calzamaglia da uno squarcio di camicia? Non importa, decidete voi, io Paolo Augusto ci divento lo stesso.
Paolo Augusto stava leggendo un articolo di filosofia della finitudine e si è imbattutto in uno splendido passaggio di snodo che parlava di quell'immenso tema che è il modus vivendi dell'umanità dopo la "Caduta" del positivismo dell'Ottocento e il suo trascinamento per rovi e ghiaione di tutto il detestabile e aberrante Novecento. È un passo terribilmente bello non tanto per il registro linguistico o l'esposizione - è anche piano e di tono perfino umile - ma per il fatto impareggiabile che non è il pistolotto caricato con gli strumenti della retorica, della morale, della religiosità scontata, è una svolta in un'analisi critica e speculativa di "Materialismo Dialettico", mica cavoli e caciotte per merenda, ma proprio quella roba dura, imbarbogente, inscalfibile perché tanto grezza e scabra appare da lontano altrettanto ben più ricca di sfaccettature di un diamante si presenta una volta presa la decisione di avvicinarvisi... E lasciamo stare cosa succede se finisci per prenderla in mano, con tutte quelle punte, quei lati taglienti che ne acuiscono ancora di più la pesantezza...
«Alla fine, venuto meno lo storicismo ottimistico e la fede nel progresso che ha dominato gran parte dell'Ottocento, quello che resta come sfondo filosofico di una modernità che non è riuscita a mantenere le sue promesse è un nichilismo diffuso che raggiunge talora altezze tragiche ma più spesso affonda nella banalità cinica e mediocre di un modo di vita regolato solo dalla ragione strumentale, in cui nulla più si percepisce circa i fini e i mezzi di quella che con gli antichi potremmo chiamare «la vita buona», o con un linguaggio più vicino alla sensibilità contemporanea, una vita sensata e degna d'essere vissuta»

Paolo Augusto che da quando abbiamo deciso di farlo nascere come un omino di carta con un piede nella realtà e la capoccia nel più iridiscente degli immaginari, a leggere questo bel passo s'è fatto tanto trasportare che si è sfilato gli occhiali e ha iniziano a usare un'asticella sulle labbra aperte a circolo mentre con lo sguardo e con la mente volava, volava lontano, ma atterrava vicino. Paolo Augusto crede che molti, ed è sicuro che tutte le persone intelligenti abbiano come idea quella di vivere una vita degna, e anche lui s'è ritrovato a pensare a come poter dire di star vivendo una vita degna, ma non fermandosi alle solite cazzate vaghe dalle mille risciacquature, ha preso proprio in mano la sua vita concreta e s'è messo a far di conto e di progetto sul foglio di carta del macellaio con un abise dalla punta fatta con un coltellaccio.
E la sua dignità di vita in cosa consiste? Nel prossimo viaggio che si farà da qualche parte? Nella prossima serata "alla grande" che si combinerà in qualche modo? Nel nuovo "vizio" attraverso il quale si compiacerà di sperperare il surplus dei suoi profitti? Nella nuova, interessante e accattivante conoscenza umana che si farà in qualche modo?
Sono questi gli argomenti che secondo Paolo Augusto dànno "dignità" alla sua vita, anche perché, lui a ben guardare, a ben studiare, a ben scrutare e a far di conto s'è accorto che non ha poi molto altro. Appare una cosa triste da constatare? Francamente, a voler prendere la vita di qualsivoglia persona, togliendo le cose fondamentali per il sostentamento e per la tesaurizzazione di risorse per quando l'età sarà veneranda e avanzata (in quanto, Paolo Augusto non è più un ragazzo non costretto a pensare per forza a queste evenienze), ci pare che lui sia andato a battere a trecento e sessanta gradi su tutti i campi che normalmente rendono "degne" una vita - basta considerare gli argomenti come categorie a maglie larghe e farci cadere dentro le cose. E, Paolo Augusto non ha voluto trascurare neanche ciò che apporta come uomo al mondo per mezzo della sua attività produttiva sociale. Anzi, proprio il lavoro che svolge, è stata quella molla nascosta nell'otturatore di questo meccanismo che ha sparato fuori la rosa dei pallini "di dignità" qualche riga fa.
E che lavoro fa Paolo Augusto? Non di certo il writer-blogger, questa è solo la sua escrescenza intellettuale. E poi, "tanto lo sapete" che mestiere fa Paolo Augusto, e non ve lo descriveremo, vogliamo darvene il senso. Fa un mestiere nel quale lui, passa le giornate a spremersi, letteralmente e metaforicamente, infondendo tutto quello che sa fare (bene o male che sia): anima e corpo, mano e intelletto, tecnica comprovata e fantasia estemporanea, per non dire genio improvviso. E, alla fine del processo di produzione, questa infusione-sussunzione di capacità diventano un oggetto reale, vero. E "oltre" il processo produttivo? Cosa accade? Che senso ha per Paolo Augusto quello che fa e che lo fa "vivere"?
Per Paolo Augusto il suo lavoro è come un sigillo simbolico a forma di moneta che ruota lentamente a mostrare una mistica a dir poco disumana, in quanto ha un lato che brilla fulgido e splendente raccontando che passa giornata a fare cose deliziose, ma non appena il bordo del sigillo manda l'ultimo bagliore come una falce di sole eclissato dalla luna, a Paolo Augusto "gli si volta le spalle" e lui vede una controparte orribile e vomitevole, perché fino allora lui, tutto quello che ha fatto, è stato fare un "pezzo di sé". Si spreme ogni giorno Paolo Augusto, infonde, distilla, plasma: trasfonde per mezzo delle sue dita qualcosa di se stesso per riversarlo su materiale informe, di origine umilissima, per non dire anche impalpabile o inesistente fino a un secondo prima su cui ci mette le mani su,  magari per rendere consistente anche un "sogno".
Quando Paolo Augusto si è accorto che il "senso", il significato spirituale interno del suo "vivere" è tale, ne è rimasto sconvolto e inquietato - è stato come se si fosse ritrovato a stringere la pastosità molle e morta del proprio cuore viscido estratto dal petto e sprimacciato in una mano grondante non più sangue ma giusto icore. Questo perché, tutti i "pezzi di sé" che Paolo Augusto ha creato, torniti, curati, raffinati, impreziositi, alla fine li ha letteralmente e marxianamente "alienati da sé". Proprio nel modo più concreto e reale possibile: ha messo in mano questi pezzi di sé ad altri che, quando per pochi minuti, quando per periodi di tempo più lunghi, sono usciti da dietro la quinta del teatro, gli si sono presentati di fronte con una maschera o nudi di pura verità per andare a prendere questo "pezzo", ma poi, una volta preso, hanno lasciato poco o tanto, ma hanno lasciato, se ne sono andati,sono tornati nell'ombra della quinta, nascosti da una tenda di broccato rosso o blu, e sono ritornati a essere degli sconosciuti.
Qualcuno potrebbe far osservare a Paolo Augusto che in fin dei conti questa è la dinamica tipica del mondo delle merci e del sistema capitalistico nel quale lui è nato quando il sistema era già più che vetusto. Ma sarebbe un errore vile e stupido, perché Paolo Augusto sta evidenziando questo perché s'è reso conto del motivo per il quale riesce nel suo lavoro: perché questo "grattugiarsi un po' d'anima per volta" per vivificare le cose che fa, è quello che ha sempre fatto nella sua vita, da sempre e forse lo farà per sempre. Sempre... Perché si può chiamarla "generosità", oppure "abnegazione", ma la pura natura dell'agire di Paolo Augusto è esattamente quello di immettere in tutto ciò che fa uno sforzo addirittura "super-omistico" sotteso però al superamento della "strumentalità delle ragioni e dei fini".
Ed ecco dunque, l'emergere come un'isola vulcanica dalle acque, l'ultimo scoglio che spiega come mai quelle righe citate prima hanno così tanto scosso e smosso Paolo Augusto. Perché la sua natura ha sempre cozzato bruscamente con la strumentalità dell'altro. Praticamente sempre, comunque fosse, in tutte le ricche o povere occasioni e opportunità della sua vita, c'è stato quel momento nel quale l'equilibrio andò a infrangersi nell'entropia di sensi e finalità diverse, e tutto ciò che lui sa fare, tutto ciò che di lui "piace" (o "piaceva") si trasmutava in un barbaglio falso e oltraggioso di qualcosa fatto per compiacere, mentre fino a qualche momento prima era gemma, era ben più che arte, era vita incastonata nel vetro soffiato e piegato.
Questo non accade perché la gente è "cattiva", ma solo perché è strumentale. Perché la gente dà, prende, concede e si permette, tutto all'interno di una forbice fatta di "altezze tragice" e "cinismo mediocre" in quanto sembra mancare ai più la capacità di immaginarlo un orizzonte più ampio, di un cielo terso nel quale garrisce un gonfalone d'un qualche acceso colore capace di segnare un'era davvero diversa per l'umanità.
La gente "non è" cattiva, ma cattiva ci diventa, "fa la cattiva", come nella Cattiva Infinità hegeliana, all'interno di canali di aridità utilitaristica.
Paolo Augusto potrebbe raccontarne a iosa di storie tristissime e amarissime, aspre come l'arsenico a lento dosaggio che non uccide ma fa vivere male, ingrigiti e incartapecoriti. Potrebbe mostrarvi ancora il voltafaccia del sigillo-simbolo dal delizioso al vomitevole, descrivendovi come il rivoltarsi come un guanto o un calzino di rapporti sociali ha esposto il negativo di dinamiche e ragionamenti che si reggevano in piedi solo con l'impalcatura della menzogna calcolata a puntino, funzionale (ancora una volta) a far adagiare lentamente l'edificio che hanno ingabbiato in un cumulo di macerie, ma senza alzare troppa polvere. E potrebbe anche sottolineare cose abiette e oscene, parole dette e gesti compiuti che sono stati dolorosissimi ma perpretrati con angelica candidezza perché indorata dall'alone della libertà ma di una libertà strumentale, quella per la quale gli uomini sono liberi di prendere, lasciare, avere, comprare, donare e poi rifiutare a loro piacimento, perché i legami sono spaghi e a tutti piace la storia di Alessandro Magno e del nodo gordiano.
Sarebbe anche ora di uscire da tanta brumosità e iniziare a dare facce, nomi, date e luoghi a tutto questo. Ma perché farlo? Paolo Augusto è un "omino di carta", la sua esistenza è un esperimento letterario, la sua vita è un concetto e non vediamo la ragione per deporre la bacchetta magica che disegna glifi glitterosi nell'aria per la cazzuola che impasta la malta. Tanto poi, anche a voler raccontare con le "Five W" del giornalismo, bisognerà tirare una riga e fare un resoconto anche di questo, e dopotutto è presagibile.
Come nei migliori racconti brevi, dove tutto è condensato, lo scrittore intrappola il finale nel corpo del racconto di modo da evitare al lettore la delusione di finire troppo presto lo scritto. Se la vita, i pensieri, le opere (e le omissioni?) di Paolo Augusto hanno una radice anti-sistema e anti-strumentale, se Paolo Augusto soffre acutamente e nevroticamente di ciò che gli viene strumentalmente alienato da sé perché gli viene preso, rapito via, lasciando solo vuoti d'ombre e luci sull'uscio di una porta, il finale non può essere altro che una domanda: perché ne soffri? Se sai che è così, perché resti aggrappato alla fantasmagoria di un'uscita di scena consumandoti nell'odore che è restato dopo l'uscita anche dopo che questo aroma è svanito?
Perché sei ancora qui? Fermo su posizioni di elaborazioni di lutti che sono stillicidi e torture, intrappolato in una malinconia lunatica e depressivizzante? Non è il momento di mollare di gli ormeggi o di reagire ripagando la strumentalità con la strumentalità?
Purtroppo no. Non è questo il momento, non lo sarà mai, anche a costo che non sia mai "tempo per noi". Ci dispiace ampiamente, ma Paolo Augusto non è quel tipo che se ha una donna e ci litiga di brutto, drammaticamente, mettendo a rischio rapporto e storia, parte di testa e finisce con lo scoparsi la prima troia disponibile che gli capita a tiro. Perché sarebbe una cosa strumentale, perché non lo si fa per il gusto di godere, ma per la logica di ribellarsi, di proclamarsi, di fare male per attestarsi e dominare quando poi sarà il momento di presentare il conto e di fare i conti.
A noi dispiace per Paolo Augusto e di Paolo Augusto, ma lui è alla ricerca di una vita degna di essere vissuta, e questa la si può trovare solo sforzandosi di trovare l'oggetto e il soggetto sul quale dedicare la "spremitura di se stesso" fino all'ultima goccia, finiscano a dissiparsi queste ultime gocce in un oceano si troppo vasto o a bagnare un deserto inaridito, sembra esseregli ben poco di specioso questo fine. Del resto se poi "resta solo il deserto", come diceva il poeta non c'è neanche fretta di fuggirgli. I deserti sono vasti, ma sono inospitali solo per chi ha fretta di attraversarli, di chi ha paura di soffrire la fame e la sete, chi invece sa che si tratta solo di trovare e provare ancora, può affrontare questo viaggio in solitaria, venga o meno un angelo incarnante il Verbo a rivelargli chissà quale profezia.

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