L. era al quarto Campari-gin del pomeriggio, aveva iniziato a bere un'ora fa. Nello studio di casa sua il volume della televisione sintonizzata su Sky era al minimo, trasmettevano i commenti a caldo sulla giornata di campionato.
Faticava un po' a concentrarsi. Innanzi tutto non aveva ben chiaro se era più importante il calcio, o gli articoli della Stampa, il Corriere o del Sole 24 ore. Certamente il quarto Campari-gin lo aveva reso assolutamente incapace di seguire la battitura della relazione sul suo portatile. Poggiò il bicchiere nuovamente vuoto sul piano di cristallo della scrivania, scintillava, tutta la stanza scintillava di vetro, acciaio, legno intarsiato, lusso.
Si sentiva stanco e annoiato, e domani sarebbe stato nuovamente lunedì. Si raccolse le mani dietro la nuca e in maniche di camicia – una camicia costosissima – iniziò a pensare cosa avrebbe potuto mangiare. Qualcosa di leggero, pensò, giusto uno spuntino da accompagnare poi con un paio di bicchieri di whisky per addormentarsi molto presto avvolto in lenzuola di seta. Una nottata tranquilla, senza stravizi, per essere pronto ad affrontare un'altra settimana in azienda.
Il telefonino lo aveva spento al fischio di inizio delle partite, e a casa sua erano anni che rispondeva esclusivamente la segreteria telefonica. Ma senza sapere il motivo reale ridiede vita al cellulare, era come se avesse avuto la premonizione che qualcuno lo avesse chiamato tra poco.
A dire la verità teneva spento sempre il telefonino nei fine settimana, o quando si ritagliava del tempo libero tra i suoi impegni. Il più delle volte lo riaccendeva solo la mattina seguente perché quando prendeva la decisione di staccare non tornava mai indietro.
Eppure accese il telefonino e nel giro di sette od otto secondi questo iniziò a frignare come solito. Rispose soprattutto perché non riconobbe il numero, ma appena focalizzò l'identità del chiamante si pentì di aver tradito le sue abitudini.
Il chiamante aveva nome Schidòn, ed era l'ultima persona che avrebbe voluto sentire. A dire la verità era riuscito a non incontrarlo più da un paio d'anni, non per abilità, per la semplice inerzia connaturata al fatto che Schidòn non viveva nella sua stessa città. Ma questo non significava che la sua ricomparsa fosse cosa di cui rallegrarsi e festeggiare.
Per una persona come lui Schidòn era quanto di più snervante potesse incontrare nelle sue giornate. Una via di mezzo tra un contatto di lavoro e una conoscenza informale, un personaggio che lo aveva costretto a coinvolgersi nelle sue storie accampando tutta una serie di conoscenze in città. Schidòn diceva di essere qui di passaggio, si trovava nei pressi di un locale, un club musicale nei pressi del centro, e desiderava una compagnia per fare una bella rimpatriata. L. cercò di evitare
“Dai su...a te non piacerebbe che un vecchio amico ti lasciasse tutto solo in questa serata noiosa, figurati che ho girato mezza Torino per ritrovarmi sempre tra cabinotti. Dài che ci divertiamo. E poi dobbiamo sistemare ancora un paio di cose, è meglio che ne parliamo vis à vis...”
Desistette. Tutto il progetto di un pasto umile e frugale e di una dormita ristoratrice sfumarono. A volte le minacce funzionavano anche con lui.
Oppure no? - Si sorprese a pensare.
In fin dei conti Schidòn era solo un outsider a Torino, e anche se, per caso, avrebbe voluto dar fastidio seriamente, lui con un paio di telefonate giuste se la sarebbe cavata agevolmente. Perché allora non lo aveva mandato a fare in culo, invece di tentare di rifarsi il nodo alla cravatta?
Chiamò la governante, gli disse che stava uscendo fuori a cena.
La governante notò che il suo datore di lavoro aveva qualche difficoltà non solo con la cravatta, ma di equilibrio in generale, chiese, con rispetto, se doveva chiamare un taxi, ma lui negò, sostenendo di voler prendere la macchina.
La governante si fece i fatti suoi e sparì.
Il luogo dell'appuntamento era in viale Virgilio, una strada immersa nel verde di un parco pubblico vicino alla riva destra del Po. L. proveniva dalla sua casa sulle colline a oriente della città, guidando piano perché la testa gli ronzava; quando si ritrovò all'altezza del viale Enrico Thovez, puntò la Thesis verso Corso Fiume, e poi dritto per il ponte di Umberto I, alla prima traversa a sinistra entrò nell'area verde.
Trovò Schidòn, intabarrato nel suo cappotto, un borsalino nero calcato sulla fronte, la sciarpa di seta intorno a collo e gli occhiali cerchiati d'oro sul naso.
Si accostò alla figura che lo aspettava sull'entrata del parcheggio di un locale chiamato lo “Chalet”. Schidòn salì in macchina velocemente e prima ancora di salutare si era tolto dalla testa il cappello. L. non se lo ricordava nei dettagli, ma non gli pareva cambiato. Sembrava una persona tra i trenta e i quaranta, non troppo alta, aveva capelli rossi, quasi tutti ancora, con un taglio che ricordava certi personaggi del cinema degli anni '30. Anche lui aveva i capelli rossi, ma erano più fitti, più corti e ondulati, accuratamente impomatati con un gel che ne preservava la lucidità, la salute e la freschezza, mentre quelli di Schidòn sembravano più morbidi e fluttuanti quando lasciati liberi dalle falde del cappello.
L. si congelò letteralmente a osservare Schidòn, aveva qualcosa di morboso negli occhi vivaci cerchiati d'oro, il volto quasi senza età non era attraente, aveva zigomi massicci e le guance un po' cadenti, la pelle pallida e chiazzata delle lentiggini tipiche del “pel di carota”, mescolate a strane fossette.
“Sì, sono carino lo so, ma tu lo sei di più, ora vogliamo andare?” sospirò Schidòn con il suo strano accento che quasi rassomigliava a quello torinese.
L. scosse la testa come se dovesse riprendersi da un momenti di stordimento.
“Vuoi cenare da qualche parte?” Mugugnò.
“Per il momento no, recati in questa via, abbiamo un appuntamento”. Gli rispose porgendogli un appunto che prese in mano e lesse per poi far ripartire la macchina senza la minima discussione.
Non dovevano fare molta strada, ma il traffico tardopomeridiano domenico-autunnale era massacrante a Torino. Aveva ricevuto la chiamata di Schidòn alle 19 e 15, aveva percorso una dozzina scarsa di chilometri in oltre 20 minuti, ora erano le otto e cinque e dovevano restare in macchina ancora per molto a dispetto dei pochi chilometri da fare.
Tuttavia Schidòn non sembrava ansioso, anzi, si stava divertendo come un ragazzino nello stuzzicare il navigatore satellitare, l'aria condizionata e lo stereo della Lancia. L. pensò che il suo “amico” non ci capisse niente di quei congegni, sembrava più che mai una scimmia con un'espressione di umana curiosità e compiacimento che pigiava a caso i tasti per vedere che tipo di colori si illuminassero.
“Perché mi hai detto che dovevamo avere un chiarimento?” Chiese L. a Schidòn fissando rigidamente la strada oltre il parabrezza.
Schidòn si rimise composto sul sedile, fece schioccare le labbra e gli rispose: “Perché al telefono mi avevi dato l'impressione di essere capace di abbandonare solitario un tuo vecchio amico in una serata di noia mortale”.
“A dire il vero...mi sentivo un po' stanco e volevo andare a letto presto”.
“Ora non puoi più, ora sei mio...ti ho preparato una serata indimenticabile”. A questa risposta egli non seppe cosa pensare, si sentiva ancora più in pericolo di quando immaginava di dover giungere alla resa dei conti con Schidòn...per quell'affare.
Infine arrivarono, parcheggiò scesero dalla macchina e Schidòn lo condusse fino a un portone. Suonò e quando dal citofono chiesero chi era disse: “Johnny, e un amichetto...”
“Johnny” sospirò 'l'amichetto', “Dove siamo arrivati? In una casa di appuntamenti?”
“Molto di più”. Gli sorrise aprendo il portone, ma l'altro roteava gli occhi pensoso...
Johnny Schidòn si voltò, inquadrò l'amichetto, tese la mano, afferrò la manica del cappotto dell'altro e diede uno strattone deciso. L. era almeno dieci centimetri più alto di Schidòn, era più giovane, era più pesante forse anche di quindici chili, ma si ritrovò con la fronte a due centimetri dal primo gradino della tromba delle scale. Si voltò a sedere, tremava di paura. Schidòn chiuse la porta e ancora di spalle disse.
“Non ha importanza se vuoi salire o meno, ora salirai con me”. Si voltò a guardarlo con un sorriso tagliente quanto un rasoio.
“Tanto...Per quanto potresti cercare di tirartene fuori, la tua starlette potrà solo pensarne male. Io sono bravissimo a far pensare male la gente”. L'ultima frase di Schidòn fu come il sibilo di un rettile.
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