Il nodo
cruciale ed epocale della trasformazione del Potere dall'uscita del
Medio Evo verso l'Età Moderna è stato il suo acquisire capacità di
autodeterminazione. Innanzitutto per il sovrano assoluto, con
la sua facoltà di decisione autonoma, sciolta (assolta) da tutti i
vincoli precedentemente a limitare conti, duchi, sacri romani
imperatori e via dicendo.
Nella
Tragedia Barocca il fulcro delle vicende saranno proprio le decisioni
del principe: autonome, spesso oscure e quasi sempre ingiuste
tramutate nello specchio catartico e introspettivo dell'Europa del
Cinque, Sei e Settecento. Tornando nell'ottica di Foucault si può
“aprire una finestra” come spesso faceva lui dicendo che è
l'oscurità il tarlo assurdo e immanente dell'uomo: quanto non è
chiaro pone domande sui perché. Quindi i tragediografi dovevano
porre con urgenza epistemologica questa ambiguità ai loro eroi; era
compito loro illustrare al pubblico l'esistenza di una possibilità
del reale sulla scena tragica per far sussultare le coscienze al
fine di carpire un'emozione.
Altri, in
altri generi e ambiti del discorso culturale, però, avrebbero potuto
agire con diverse finalità, domandandosi dove il salto nel vuoto nel
caos senza vincoli e ordine che certuni lamentavano a posteriori,
avrebbe potuto condurre, e come poter trovare un Filo d'Arianna per
uscire dal labirinto limaccioso che l'autodeterminazione presentava
come rischio intrinseco. Questi “altri” possono essere stati gli
storici, e il caos può essere stato individuato nella
sfera privata borghese dove tutto era concesso, che si stava
inspessendo coll'avanzare del tempo come spazio di vita importante ma
veniva dissolto in contemporanea dal potere quando questo andava a
incidere la sua libertà. Per capire il processo è sufficiente
osservare come la Tragedia prende “la storia”, il materiale del
reale e i contenuti intimi e privati degli uomini e li pone su un
piano inclinato da cui non c'è ritorno. E una volta giunti alla
fine, tutte le imprese narrate e/o inscenate si rivelano – o meglio
non si rivelano – come una storia raccontata da un povero
ragazzo pazzo, colma di frastuono e furia che non significa nulla.
Sembra che alla chiusura di Quinta, in verità, per l'eroe tragico
non ci sia presenza reale di significato e concetto, come se quel
“Fato” caduto sui protagonisti si fosse unicamente divertito a
spingerlo, a trascinarlo, a strapazzarlo facendolo rotolare e
ruzzolare tra angosce, ambasce, disgrazie e dolori che lo
“degradano”. Non per caso Foucault scrisse che di fronte alle
leggende nere degli uomini infami gli sembrava di trovarci dentro
certi passi di alcune Tragedie coeve ai registri; era come se
condividessero lo stesso materiale – la disgrazia orrida e
minuscola – e la utilizzano nello stesso modo – ingigantendola
fino a decidere le sorti degli esseri umani e di strutture sociali
più grandi di loro coinvolte.
Ma dietro a
tutte queste «gesticolazioni disperate» che producevano e
riproducevano continuamente sia in finzione sia nella realtà solo
gli effetti di volontà egoistiche e corrosive – la riparazione di
un torto o di un danno, la sopraffazione di un individuo quando gli
era impedito di agire e disporre liberamente di sé e dei propri
beni, la cruda e “semplice” vendetta per quanto complicatamente
potesse essere ricercata – c'era una scena, un fondale.
Tutti questi soggetti si muovono con esso sullo sfondo e per quanto i
soggetti sembrano poter agire senza freno alcuno perché
autodeterminati, oppure perché capaci di sedurre e sfruttare i
meccanismi del Potere, la scena-fondale è il loro limite
ultimo, li incatena perché come dotata di una straordinaria forza di
gravità nel senso che era tipico per i personaggi della Tragedia
Barocca trovarsi l'incombere della necessità di “levare le tende”
dai luoghi fisici e geografici dove le vicende si ambientavano;
oppure togliersi da lì era un loro intensissimo desiderio, la
speranza di una vita, o infine una loro ineluttabile e fatale
decisione. Ma per contro nessuno si muove mai, nessuno
concilia i fatti con se stesso e sceglie di allontanarsi; tutti
restano dove si trovano a perpetrare o subire le ultime conseguenze
delle liti, delle rivalità, di congiure e vendette. E sono tutti
imbambolati, come se «In ultima analisi [sia] lo spazio tragico a
fondare la Tragedia […] ogni tragedia sembra consistere in un
volgare non c'è spazio per due. Il conflitto tragico è una
crisi di spazio».
Da dove nasce
questo sentimento di mancanza di spazio? È senza dubbio un
sentimento di crisi; forse era indotto da fenomeni che conducono a
questioni di “storia materiale”, oppure è l'Enigma polare e
immane scaturito dalla dissoluzione dei limiti e dall'assoluzione dei
comportamenti (assolvere e assolutizzare sono in
pratica quasi la stessa cosa a ben pensarci) che fa apparire la
libertà qualcosa di mostruoso e devastante nei riguardi dello spazio
di vita comune e condiviso?
La soluzione
che si propone rovescia completamente la causa e l'effetto. Il
sentimento di oppressione psicotica e il feticismo compulsivo verso
uno spazio sociale che diventa letteralmente invivibile nella
pace e nella concordia, proviene da una riorganizzazione dello
spazio, riuscita fin troppo bene. È stato il potere a riuscire
in quest'opera, creando lo spazio come cosa, come “bene” di cui è
possibile appropriarsi. E nessun tipo di spazio resta immune a questa
riorganizzazione: lo spazio degli altri, i loro beni, il loro tempo,
i loro codici di condotta e di espressione possono passare di mano in
mano a qualcun altro ancora, con una brutalità e un'efficienza
persino più grande e capziosa della schiavitù nel Mondo Antico.
Tutto questo
è reso possibile dalla messa a discorso del quotidiano e dal
raffinamento degli strumenti politici con i quali agire su di esso;
come già per l'eroe tragico il paradosso nasce dal prendere le
pretese dell'assolutismo troppo sul serio, troppo alla lettera, come
Walter Benjamin annotò: «La teoria della sovranità imponeva di
perfezionare l'immagine del sovrano nel tiranno».
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