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Ditesti

martedì 9 luglio 2013

Parte Sesta e ultima: l'Auto determinazione



Il nodo cruciale ed epocale della trasformazione del Potere dall'uscita del Medio Evo verso l'Età Moderna è stato il suo acquisire capacità di autodeterminazione. Innanzitutto per il sovrano assoluto, con la sua facoltà di decisione autonoma, sciolta (assolta) da tutti i vincoli precedentemente a limitare conti, duchi, sacri romani imperatori e via dicendo.
Nella Tragedia Barocca il fulcro delle vicende saranno proprio le decisioni del principe: autonome, spesso oscure e quasi sempre ingiuste tramutate nello specchio catartico e introspettivo dell'Europa del Cinque, Sei e Settecento. Tornando nell'ottica di Foucault si può “aprire una finestra” come spesso faceva lui dicendo che è l'oscurità il tarlo assurdo e immanente dell'uomo: quanto non è chiaro pone domande sui perché. Quindi i tragediografi dovevano porre con urgenza epistemologica questa ambiguità ai loro eroi; era compito loro illustrare al pubblico l'esistenza di una possibilità del reale sulla scena tragica per far sussultare le coscienze al fine di carpire un'emozione.
Altri, in altri generi e ambiti del discorso culturale, però, avrebbero potuto agire con diverse finalità, domandandosi dove il salto nel vuoto nel caos senza vincoli e ordine che certuni lamentavano a posteriori, avrebbe potuto condurre, e come poter trovare un Filo d'Arianna per uscire dal labirinto limaccioso che l'autodeterminazione presentava come rischio intrinseco. Questi “altri” possono essere stati gli storici, e il caos può essere stato individuato nella sfera privata borghese dove tutto era concesso, che si stava inspessendo coll'avanzare del tempo come spazio di vita importante ma veniva dissolto in contemporanea dal potere quando questo andava a incidere la sua libertà. Per capire il processo è sufficiente osservare come la Tragedia prende “la storia”, il materiale del reale e i contenuti intimi e privati degli uomini e li pone su un piano inclinato da cui non c'è ritorno. E una volta giunti alla fine, tutte le imprese narrate e/o inscenate si rivelano – o meglio non si rivelano – come una storia raccontata da un povero ragazzo pazzo, colma di frastuono e furia che non significa nulla. Sembra che alla chiusura di Quinta, in verità, per l'eroe tragico non ci sia presenza reale di significato e concetto, come se quel “Fato” caduto sui protagonisti si fosse unicamente divertito a spingerlo, a trascinarlo, a strapazzarlo facendolo rotolare e ruzzolare tra angosce, ambasce, disgrazie e dolori che lo “degradano”. Non per caso Foucault scrisse che di fronte alle leggende nere degli uomini infami gli sembrava di trovarci dentro certi passi di alcune Tragedie coeve ai registri; era come se condividessero lo stesso materiale – la disgrazia orrida e minuscola – e la utilizzano nello stesso modo – ingigantendola fino a decidere le sorti degli esseri umani e di strutture sociali più grandi di loro coinvolte.
Ma dietro a tutte queste «gesticolazioni disperate» che producevano e riproducevano continuamente sia in finzione sia nella realtà solo gli effetti di volontà egoistiche e corrosive – la riparazione di un torto o di un danno, la sopraffazione di un individuo quando gli era impedito di agire e disporre liberamente di sé e dei propri beni, la cruda e “semplice” vendetta per quanto complicatamente potesse essere ricercata – c'era una scena, un fondale. Tutti questi soggetti si muovono con esso sullo sfondo e per quanto i soggetti sembrano poter agire senza freno alcuno perché autodeterminati, oppure perché capaci di sedurre e sfruttare i meccanismi del Potere, la scena-fondale è il loro limite ultimo, li incatena perché come dotata di una straordinaria forza di gravità nel senso che era tipico per i personaggi della Tragedia Barocca trovarsi l'incombere della necessità di “levare le tende” dai luoghi fisici e geografici dove le vicende si ambientavano; oppure togliersi da lì era un loro intensissimo desiderio, la speranza di una vita, o infine una loro ineluttabile e fatale decisione. Ma per contro nessuno si muove mai, nessuno concilia i fatti con se stesso e sceglie di allontanarsi; tutti restano dove si trovano a perpetrare o subire le ultime conseguenze delle liti, delle rivalità, di congiure e vendette. E sono tutti imbambolati, come se «In ultima analisi [sia] lo spazio tragico a fondare la Tragedia […] ogni tragedia sembra consistere in un volgare non c'è spazio per due. Il conflitto tragico è una crisi di spazio».
Da dove nasce questo sentimento di mancanza di spazio? È senza dubbio un sentimento di crisi; forse era indotto da fenomeni che conducono a questioni di “storia materiale”, oppure è l'Enigma polare e immane scaturito dalla dissoluzione dei limiti e dall'assoluzione dei comportamenti (assolvere e assolutizzare sono in pratica quasi la stessa cosa a ben pensarci) che fa apparire la libertà qualcosa di mostruoso e devastante nei riguardi dello spazio di vita comune e condiviso?
La soluzione che si propone rovescia completamente la causa e l'effetto. Il sentimento di oppressione psicotica e il feticismo compulsivo verso uno spazio sociale che diventa letteralmente invivibile nella pace e nella concordia, proviene da una riorganizzazione dello spazio, riuscita fin troppo bene. È stato il potere a riuscire in quest'opera, creando lo spazio come cosa, come “bene” di cui è possibile appropriarsi. E nessun tipo di spazio resta immune a questa riorganizzazione: lo spazio degli altri, i loro beni, il loro tempo, i loro codici di condotta e di espressione possono passare di mano in mano a qualcun altro ancora, con una brutalità e un'efficienza persino più grande e capziosa della schiavitù nel Mondo Antico.
Tutto questo è reso possibile dalla messa a discorso del quotidiano e dal raffinamento degli strumenti politici con i quali agire su di esso; come già per l'eroe tragico il paradosso nasce dal prendere le pretese dell'assolutismo troppo sul serio, troppo alla lettera, come Walter Benjamin annotò: «La teoria della sovranità imponeva di perfezionare l'immagine del sovrano nel tiranno».


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