Tant'è, ma è questione di preferenze rassegnarci o apprezzare la natura dell'amore in qualità di struttura e costrutto sociale. Il mondo è nell'occhio placido di un ciclone vasto in proporzioni tali che assomma alla grandezza di una plaga. Effetto postumo di coppie processanti: desertificazione/disgregazione, destrutturazione/mobilitazione. Tra tanta polvere e tritume, anche l'uomo è indistinto e monadico: quando un amore finisce - a qualunque titolo - torna l'arazzo desertico, l'affresco disgregato del mondo reale di fronte agli occhi, perché semplicemente il sociale non tiene più e le strutture dei legami d'affetto e dell'attrazione sessuale in verità poggiano sul nulla, dato che senza le case, senza occupazione, senza formazione e senza progettualità che si protende al futuro, tutto è pura mobilità: carta dei quotidiani di ieri sul bordo dei tavoli all'aperto e buste di plastica giocate dal vento - questa è pure l'immagine migliore per il concetto attuale della dignità dato che la maggioranza appare favorire la propensione a perderla, a disfarsene per un poco d'amore, piuttosto che per la controparte.
Non ci resta, ormai, d'imparare a non riporre alcun principio morale nell'altro da sé che si finisce coll'amare, perché controverte il costrutto attuale e questo si richiude addosso all'individuo fallace come una gabbia dai lati irti di lame acuminate.
Non esiste una cura per questo genere dilagante di amore malato, lo si può soppiantare solo guarendo le forme di vita malate
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