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Ditesti

mercoledì 13 febbraio 2008

Le Realtà di Federica – 1. “Federica saliva le scale silenziosamente” - Prima pagina.





Federica saliva le scale silenziosamente muovendosi furtiva. Si sentiva una specie d’incapace che voleva essere a tutti i costi una ladra. Il pavimento era di marmo; non voleva fare alcun rumore con i suoi passi. Se, uno sconosciuto – ma non poteva che incontrare estranei – sarebbe comparso di fronte a lei per andare a gettare la spazzatura, una scarica di adrenalina le si sarebbe fiondata per la schiena, schiantandosi sul suo petto come il colpo di una mazza.

Probabilmente tutto si sarebbe concluso in meno di un attimo e dalle sue labbra non sarebbe uscito il minimo accento. Le accadeva sempre alla minima sorpresa che le sfuggisse costantemente lo stesso suono: una via di mezzo tra una A e una U; né un sospiro né uno sbuffo, ma una sorta di scatto meccanico. E adesso aveva i nervi talmente scoperti che al buio avremmo potuto vedere le scintille delle sinapsi. La sua fantasiosa minaccia forse non l’avrebbe guardata sbiancarsi, sudare; bloccare del tutto i suoi passi tremanti. Forse.

Per strada rimaneva sempre in bilico tra lo strisciare via, anonima, e l’attraversare innumerevoli mura di sguardi, e, dentro di sé, accoglieva questa condizione con l'identico equilibrio precario.

Ora voleva essere invisibile. Anche fosse stato un gattino di quaranta giorni tenero e impaurito, ma stoico nell'affrontare il mondo esterno; lei ecco…Non avrebbe più titubato un solo passo in avanti. Dietrofront! A rinchiudersi finché tutto non le sarebbe passato.

Osservava a terra la pietra biancastra capace di ferire la vista con i riflessi, anche se le luci le aveva lasciate spente. Per questo si sentiva a disagio. Nessuno degli inquilini sapeva che lei si trovava nel loro condominio. Aveva evitato il citofono perché il «Si prega di chiudere il portone, SEMPRE!» era sistematicamente ignorato – inoltre – benché non le fosse passato per la testa, il vento e i vizi dei cardini dovuti dal continuo sbattere e spalancare, lo lasciavano comunque socchiuso.

Non guardava che a terra sapendo bene dove doveva andare, inopportuna probabilmente, e maleducata senz’altro.

Non era abitudine di Federica presentarsi da qualcuno senza avvertire, con fare invadente. Ma fuori, sul pianerottolo, un portone chiuso e un citofono sarebbero stati un ostacolo da superare. Un sì o un no. E un portone aperto invece era un invito, un buon auspicio, un messaggio del destino che la rassicurava che tutto sarebbe andato bene.

Al termine della prima rampa il tacco fece rumore. Si moltiplicò in crescendo per la tromba delle scale. Poiché alle sei del pomeriggio era rientrata poca gente. Solo dalle venti a mezzanotte quel rumore si sarebbe confuso tra le televisioni e gli squilli di telefono, e qualche pianto di bambino; poi sarebbe tornato il silenzio.

Il suo stesso rumore le aumentò il disagio. Adesso Federica pensava a come sarebbe stato se il pavimento avesse avuto la moquette. Moquette anche per le pareti fra porta e porta, e un controsoffitto pastello con delle plafoniere. Allora, non avrebbe fatto nessuna differenza un passo spedito o circospetto, un piede pesante o vellutato, a terra avrebbe fatto sempre lo stesso suono, quasi impalpabile.

«Niente di peggio ancora»; si composero spontaneamente queste parole nella testa di Federica.

Si vedeva davvero muoversi perfettamente come un ladro. E non sarebbe stata in un condominio, ma in un albergo. In un albergo, stava pensando velocissimamente per associazioni istantanee, le persone prendono camere per periodi brevi, mosse da interessi ben specifici; lei sarebbe andata a trovare una persona in un albergo solo se gli fosse stato necessario. Era necessario che lei si trovasse lì in quel periodo per determinate cause? Era vero che il portone aperto simboleggiava realmente una buon auspicio?

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