Più passano gli
anni e più continua a perseverare il paradigma culturale
scontatissimo che fa gioco in tutto l'Occidente, spaziando per il
Nord America scendendo in Australia e Nuova Zelanda, per saltare
nella regione scandinava e infine continuare a dilagare in tutta
l'Europa. Quanto a Washington tanto a Berlino pensano o cercano di
farci pensare che alla fine il mondo sia sempre lo stesso, quello di
dieci, di cinquanta, di cento anni fa o ancora più vecchio. È quel
fenomeno potentissimo e malato dell'Occidente indicato con il termine
eurocentrismo. L'Italia tra tutte è la nazione maggiormente
affetta da un costante bombardamento mediatico di carattere
dittatoriale, atto a tenere sempre ravvivato questo concetto nella
coscienza collettiva e multimediale, lasciandola senza la neppur
minima idea di quello che accade nel resto del mondo. Ma ciò che più
conta è che instilla a pensare ancora come nel 1812 con i suoi
aut-aut: “Se crolla l'Europa crolla il mondo intero – se
crolla l'euro, l'Europa si disintegra e scompare la civiltà nel
mondo”, quando non è affatto così, lo è solo quando si ragiona
ancora in termini coloniali.
Sembra che stia
dicendo delle grandi stupidaggini poiché mi si potrebbe contraddire
facilmente indicandomi invece i “grandi mutamenti del mondo”, la
Cina per esempio, oppure ricordarmi dell'estemporanea esperienza
delle Tigri Asiatiche degli anni '80-90 e di quella attuale nel
comparto elettronico, concentrati nelle piccole realtà territoriali
della Corea del Sud e di Taiwan. Ma in fondo, che cambiamento c'è
realmente stato? Queste novità si impongono per tali poiché ci
entrano per forza di cose nel piatto quando mangiamo, occupano gli
angoli delle nostre case arredandoli, ci portano in giro su ruote o
ci vestono ogni giorno. Non c'è un reale cambiamento – a mio
avviso – perché per arrivare a tanto, tutto questo “nuovo”
subisce un processo di dis-alienazione, specialmente sotto il
profilo del famoso “metodo di produzione” marxiano, mentre di ciò
che nasce diverso ed è intenzionato a restare tale, sembra destinato
a subire la tacitazione sotto ogni profilo. Perché, per esempio, non
si conosce della lotta politica tra il Brasile e l'Onu? Christine
Lagarde, presidente del FMI ha l'incarico di gestire la sistemazione
e le ripercussioni politico/simboliche della scalata nel rank
del novero dei paesi industrializzati proprio del Brasile, il quale
ha raggiunto l'ottava (e forse già la settima) posizione
scavalcando, guarda un po', l'Italia.
Ecco un vero e
inaspettato cambiamento mondiale sul quale in primo luogo pensano sia
bene di non raccontarne troppo in giro, in quanto potrebbe venire a
galla di come il fatto che la scelta programmatica di periodo
medio-lungo, cioè la depauperazione della forza economica
dell'Italia a favore delle economie centro-settentrionali dell'Europa
(per salvare così l'euro e quell'idea di Europa antisociale e
ultraliberista) produce anche uno sconquassamento generale della
concezione geopolitica del mondo.
Difatti sarebbe
alquanto difficile continuare a sostenere la crociata in difesa
dell'euro, dell'Unione Europea, della civiltà occidentale quando un
pezzo “storicamente” importante del continente come l'Italia
scende di un gradino (o forse due) nella classifica dei più ricchi e
potenti, con ciò che comporta dal punto di vista formale: l'Italia
non potrà più partecipare ai summit del G8. Non è cosa
sottovalutabile, dato che – poi – come si potrà mai sostenere
che l'Italia e l'Europa «stanno facendo bene» se proprio uno dei
paesi più vessati, al quale si è richiesto tra i maggiori sacrifici
perisce e si perde per strada? Allora non sarà più vero che “si
sta facendo bene” e che «usciremo dalla crisi». Si vogliono poi
mettere le ripercussioni nello stipulare accordi di portata mondiale
a un tavolo dove il Brasile sostituisce uno dei più servili alleati?
È una bella gatta da pelare per i Big Five e per le economie
trainanti europee poiché si torna sempre alla questione principale:
“come si fa a dire che l'Europa è forte, se nella competizione e
nell'evoluzione della storia mondiale ha perso un pezzo?”.
Quale soluzione sta
cercando di trovare la Lagarde – a parte la giusta e doverosa presa
d'atto che il mondo sta cambiando? (e questa signora non l'accetterà
mai). Questa signora pensa di allargare quel novero delle grandi G da
otto a dieci così da poter continuare a mantenere l'Italia in una
posizione di prestigio. Secondo voi, il Brasile accetterà con
spirito buonista e rispettoso della “storia dei privilegi” questa
idea che sostanzia una reale espoliazione di credibilità
internazionale, di sovranità, di peso specifico e politico e anche
di capacità di influenzare le sorti del mondo? – poiché è ovvio:
se io riesco a raggiungere una posizione per la quale posso dire
finalmente la mia e farla contare concretamente, se tu mi annacqui
tutto questo allargando la cerchia della discussione non solo
sembrerà che io sono arrivato pur sempre dopo l'Italia, ma
soprattutto mi pare chiaro che si sta tentando di mantenere le cose
così com'erano.
Quanta parte ha
preso la nostra nazione nell'opera di manipolazione dell'idea di
mondo? Io credo che nonostante tutto l'affannato berciare e
l'insensato sbraitare che mai si possa fare a livello diplomatico,
oltre al rumore di fondo del coro la nostra diplomazia sia riuscita a
sollevare e sollevarsi ben poco, è più probabile siano Inghilterra,
Francia e Germania a interpretare il ruolo di nostri “protettori”
ma quando mai noi stessi potremo credere seriamente che lo stiano
facendo “per noi”? Queste nazioni si oppongono al Brasile per
opporsi al trionfo del Keynesismo del Sudamerica che è un irruento
ritorno di una filosofia nel teatro della storia, una leva efficace
attraverso la quale diversi Paesi sono riusciti a guadagnare
autonomia e indipendenza politica, proprio quella “pura nobiltà”
tanto e quasi sempre assente a un paese di tradizione così blasonata
come il nostro.
La concezione
eurocentrica infesta e inquina la posizione politica dei “Grandi”;
sembrano bloccati in una muscolare prova di forza incapace di
mascherare poi troppo un atteggiamento arrogante e aggressivo nei
confronti delle nazioni sudamericane. È più che un retaggio
culturale ereditato dalla “Guerra Infinita” di Bush Junior,
inscenata dopo l'11 Settembre.
Lo schiacciare tutto
ciò che non è occidentale e ultraliberista contro il muro dei
possibili Stati-canaglia, coacervi di fondamentalismi religiosi,
fomentatori di attacchi terroristici e perciò passibili di
“punizioni” sotto forma di guerre che poi terminano con le cacce
all'uomo contro i leader politici (Saddam Husseim, Mohammad Gheddafi,
Osama Bin Laden) secondo me è cosa manifestante una latente
ignoranza nei confronti di possibili soluzioni alternative, una
“sporca” e detestabile mancanza di mezzi, strumenti e volontà
politica di mutare la strategia, anche a costo di arrivare allo
scontro civile (o meglio “di civiltà”) e allo scontro sociale (o
meglio alla depressione e repressione socioeconomica dei cittadini
europei).
Tuttavia possiamo
anche condividere il fatto che “la storia viene scritta dai
vincitori”, ma perlomeno che i vincitori vincano prima di
scriverla! E questo ancora non è avvenuto, la lotta politica tra
Nord e Sud del mondo (è proprio il caso di riprendere questo genere
di terminologia) è ancora tutta in corso e stavolta il Nord del
mondo si trova a dover combattere dei paesi avanzati non solo dal
punto di vista sociale ed economico, ma anche culturale. Qualcuno può
riuscire a svilire la caratura culturale del Brasile, dell'Argentina,
del Cile, della Colombia e del Venezuela? Sono posti popolati da
genti che hanno il nostro stesso grado di accesso ai saperi e alle
conoscenze, sono persone che hanno maturato concezioni culturali
avanzate da ben per prima dell'innovazione tecnologica della
comunicazione digitale e della globalizzazione del mondo. E quindi,
non solo questi paesi sanno rispondere efficacemente all'oppressione
del Nord del mondo, lo sanno fare senza correre il rischio di vedersi
accusare per crimini contro l'umanità o d'essere focolai
d'insorgenze millenariste e oscurantiste antieuropee e
antioccidentali. Soprattutto il Sudamerica non ha paura di
combattere i padroni; forse non l'ha mai avuta se vogliamo
vedere la fortunatissima tradizione rivoluzionaria che ha creato gli
Stati-Nazione in quel continente.
La storia “creata”,
cioè quella mossa e voluta per iniziativa stessa dei popoli di quel
continente tante volte ha subìto tentativi d'essere offuscata
attraverso opere di diminuzione statuaria della reale consistenza dei
Paesi sudamericani, con l'eurocentrismo che provava (e tutt'ora
prova) a offrire una percezione di quel quinto di mondo al pari di
una zona ancora coloniale, o di un'area particolarmente desertificata
e depauperata, composta di culture disgregate e insignificanti.
Invece la realtà è ben differente a partire dal principio per il
quale il Sudamerica non ha dimenticato la sua natura costituente,
ossia non ha mai gettato alle ortiche il suo passato insurrezionale e
rivoluzionario, e ogni volta che le forze politiche più avanzate e
progressiste si sono ritrovate a governare i Paesi, la tradizione
popolare e democratica dell'America Latina è stata sempre
rivendicata e proseguita con atti concreti; ogni volta che tutto ciò
ha prodotto risultati concreti, presto le Nazioni a capo del Nord del
mondo si sono poste in senso ostruzionistico rispetto ai latini, ed è
ciò che sta caratterizzando in questo periodo storico le vicende
delle relazioni internazionali tra questi poli mondiali, poiché dopo
la grande crisi dell'Argentina – forse il primo caso di default
di un'economia nazionale, per usare categorie d'ultimo grido – sia
il Paese delle Pampas sia tutti tutti gli altri suoi vicini sono
riusciti a risollevarsi “alla grande”, ma attraverso ricette e
scelte di economia politica che alcuni hanno definito “keynesiane”
e che in special modo Paesi come America, Germania e Inghilterra,
semplicemente non possono sopportare in quanto incrinano e
mettono vigorosamente in discussione il loro sistema di dominio.
Il Nord del Mondo,
tuttavia, sembra deciso a voler perseverare la scia del
neo-imperialismo sperimentato alla fine del Novecento e portato
avanti in modo sordo e strisciante fino a oggi, con un miscuglio
d'ingerenza ignorante delle diversità e delle specificità di ogni
Paese che in certi casi sfocia in opzioni militari più o meno mirate
e che – per la maggior parte – si manifesta come ottusa
opposizione tesa a schiacciare.
In questo caso,
però, l'Occidente si trova ad avere a che fare con una comunità di
Stati che a dire il vero mai fu incline alla sottomissione, forse
neanche nell'epoca del colonialismo, perché capace di dare risposte
forti e poderose le quali, se non sono di pubblico dominio mondiale è
solo per colpa di un'articolata e mirata opera censoria.
Per
esempio, questa estate, vi fu il caso di Jules Assange – era con
l'acqua alla gola il 15 di giugno, con Scotland Yard in procinto di
arrestarlo per estradarlo in Svezia dove al posto di un processo
regolare, avrebbe sicuramente trovato due agenti della CIA
statunitense. In luogo di doversi difendere dal reato di violenza
carnale che gli era contestato, in una sperduta e segreta corte
d'America, Assange sarebbe stato giudicato per sua posizione e
attività nel conflitto bellico dichiarato tra Nato e Iraq, e quindi
sottoposto alla legislazione antiterrorista del Patriot Act
statunitense.
Le vicende che hanno
portato fama al “più o meno hacker” Julien Assange sono
abbastanza note, così come sembrava ineluttabilmente noto il finale
della sua storia, perché caduto sotto il mirino delle potenze
estreme e maggiori che non gli avrebbero lasciato scampo in quanto
“il crimine non paga”. Inaspettatamente le sorti di quest'uono
cambiarono. Anche allontanandosi da un'atmosfera persino
cinematografica o romanzesca, Assange entrò all'Ambasciata
dell'Equador di Londra il 19 giugno 2012 in completo silenzio,
praticamente sotto gli occhi di tutti e da quel momento, il suo
novero di Wikileaks insieme ai diplomatici del piccolo Paese
iniziarono la trattativa con gli agenti inglesi, con gli svedesi e
con i colleghi diplomatici americani a Rio de Janeiro. A quanto pare,
la mossa di Assange ha spiazzato di netto la tre quarti più potente
dell'intellighenzia mondiale, rovesciando completamente il
fattore “timore”. Per una qualche ragione gli Stati potenti non
furono più affatto propensi a innescare una guerra diplomatica con
l'Equador a pochi giorni dalle Olimpiadi, e parve che cercarono di
sottacere tutto il possibile dando in cambio, ad Assange, la libertà
di trasferirsi in America del Sud dove con molta probabilità si
trova nel momento in cui sto scrivendo.
Perché, allora,
questa vicenda ha pur tuttavia avuto rilievo nelle cronache mondiali,
per non dire che tenne banco per qualche giorno? Semplice! In quanto
Wikileaks fece più che bene a non fidarsi dei potenti padroni
del Nord del Mondo momentaneamente rabboniti dal timore per le sorti
di un evento sportivo/mediatico/comunicativo di levatura mondiale (le
“insulse” – se rapportate a ben altri determinanti o sciagurati
eventi – Olimpiadi) e lavorarono rappresentandosi con più d'una
diplomazia dell'America Latina. I risultati possono essere
estrapolati dalla concatenazione degli eventi.
Questo concatenarsi
di cose avvenute tra Nord e Sudamerica intanto vede l'esistenza di
una consociazione internazionale chiamata ALBA, acronimo molti più
gradevole del famigerato NAFTA, e per dimostrarne l'essenza basta
svelarlo: “Alianza Laburista Bolivariana Americana”. Il 3
agosto 2012 – cioè qualche settimana dopo lo scatenarsi
dell'Affaire Assange, ALBA fu rappresentata nella persona del
ministro dell'economia dell'Ecuador Patino, il quale accompagnò
negli Stati Uniti la presidente dell'Argentina Cristina Kirchner. La
signora Kirchner quel giorno fece qualcosa di spettacolare ed
eccezionale per la storia delle relazioni internazionali: con un
anticipo di 16 mesi si fece riprendere e fotografare a firmare
simbolicamente un gigantesco assegno stampato su un cartellone che
garantiva la somma di 12 miliardi di euro al Fondo Monetario
Internazionale creditore dell'Argentina. Per mettere il tutto meglio
in risalto la data di scadenza riportata dal “pagherò” fu
fissata al 31 dicembre 2013.
Sappiamo benissimo
che il saldo anticipato di un debito è cosa 'sì rara anche tra
comuni persone e per importi banali; il gesto della Kichner non può
essere sottovalutato quindi, è stato una dimostrazione di forza,
coraggio e persino d'etica e giustizia sociale incredibile. La
Repubblica Argentina dimostra al mondo intero la sua credibilità
come debitore assolvente, tornando con una veste indiscriminabile da
parte delle agenzie di ratings a essere una nazione
attendibile e affidabile per chiunque voglia investire i suoi soldi.
Qual è il segreto
dell'Argentina? In che modo è riuscita a compiere un miracolo che
per diverse nazioni europee sembra un mistero inaccessibile? Detta in
sintesi la storia del primo decennio del XXI secolo vede il primo
default di un'economia nazionale toccare proprio alla nazione
di cui discutiamo, per una somma di 112 miliardi di dollari; una
cifra sì enorme, ma una cifra stanziata e calcolata. Una volta
avvenuto il disastro il Paese, in primo luogo, scelse di evitare la
melma della sudditanza coloniale; rifiutò di accodarsi alla pletora
degli sciagurati e sottomessi Paesi che implorano la “Cancellazione
del Debito”.
La dignità esiste
per le nazioni quanto per i singoli individui, poiché le nazioni
possono (devono?) essere un popolo di individui. Quindi sia i
Paesi sia gli uomini degni di loro stessi, quando si trovano in
condizioni tali e rifiutano la schiavitù, semplicemente dichiarano
fallimento, bancarotta, si pongono in uno stato d'essere “tecnico”,
lecito, previsto dall'ordinamento sociale che gli consente di
continuare a vivere mantenendo la propria autonomia di scelta. Con
questa scelta l'Argentina ottiene il termine di 10 anni per saldare
il debito e trascorrere tutto questo tempo in forte opposizione
contro le pretese del FMI – il quale è noto, ha funzione di
imporre ai Paesi debitori misure di natura economica – che
chiaramente voleva l'Argentina come primo laboratorio per realizzare
quella Austerity che oggi attanaglia mezza Europa. Il Paese
delle Pampas seguì una strada diversa e opposta: un keynesismo
di bilancio sociale, per un benessere equo e sostenibile a partire
dagli investimenti nelle infrastrutture e molto altro – investire,
invece di tagliare. I risultati si sono visti il 3 agosto 2012.
L'insegnamento
storico da trarre è indiscutibile: le idee del Fondo Monetario
Internazionale e della Banca Mondiale sono sbagliate; fossero davvero
loro le cattedre infallibili che ordinano il mondo e la sua
costituzione, l'Argentina non sarebbe mai riuscita in tanto, e
sicuramente nulla gli fu concesso da loro.
Un'altra cosa
strabiliante da sottolinearre è la conformità e la regolarità di
questa democrazia sudamericana nei confronti dei principi del diritto
occidentale; una sorta di schiaffo morale senza dubbio alcuno verso
quelle istituzioni che non solo sono sovranazionali per loro stessa
natura, ma che da sempre riescono con facilità a trovare modi per
calpestare le stesse cose che dovrebbero difendere e garantire. Ma la
presidente Kirchner fece ben di più, perché il 3 agosto 2012 non si
concluse con la faccenda dell'assegno. Appena “sistemati i conti”
con l'FMI la signora presentò una denuncia contro Gran Bretagna e
Stati Uniti al WTO, coinvolgendo anche l'FMI con cui aveva appena
“chiuso la partita”, utilizzando proprio (guarda un po') alcuni
documenti messi a disposizione da Wikileaks, cioè da Assange.
L'Argentina saldò
il suo debito, ma volle i danni con tutti gli interessi composti.
Sfruttando la trascrizione di diverse conversazioni in più
cancellerie del globo, che coinvolgevano gli USA, la Gran Bretagna,
Francia, Italia, Germania, lo Stato della Città del Vaticano,
Wikileaks ha messo a disposizione materiale soprattutto di
tipo economico, soprattutto di molte delle politiche economiche
keynesiane discusse dai potenti che progettavano su come
metterle ancora una volta in ginocchio, insieme all'economia del Sud
America, portando via le risorse energetiche, impedendo la ripresa,
bloccando la crescita, negandogli l'autodeterminazione economica, per
imporre i diktat del Fondo Monetario il cui scopo, sarebbe, di
riportare l'America Latina al servizio di economie europee
attualmente in difficoltà: Spagna e Italia, più la Germania che
vuole sempre la sua parte, più l'Inghilterra che la otterrà
mettendoci i suoi capitali.
Gran parte di questa
documentazione è pubblica su Internet e sono una gran parte di ciò
che Assange portò in dote all'Ambasciatore dell'Ecuador in Londra.
Se vogliamo possiamo dire che il gesto di Assange fu una scelta di
oculata convenienza politica: andò a chiedere protezione a un paese
“nemico dei suoi nemici” e probabilmente il biondissimo Hacker
era a conoscenza del fatto che la nazione equatoriale è stata il
primo Paese di lingua e cultura occidentale, che dopo la divisione
del globo nei blocchi (1948), applicò il concetto di “debito
immorale”; ovvero il rifiuto politico e tecnico di saldare alla
comunità internazionale i debiti consolidati dello Stato se ottenuti
dai governi precedenti attraverso la corruzione e la violazione dello
stato di diritto e il tradimento della costituzione. Questo, forse,
Assange lo sottovalutò, o forse non lo calcolò proprio, ma possiamo
perdonarlo se ora ci perdona il fatto che non lo richiameremo più,
in quanto i protagonisti stanno cambiando.
Era il 12 dicembre
2008 quando il neopresidente dell'Ecuador Rafael Correa dichiara
ufficialmente in diretta televisiva per tutto il continente latino la
decisione di cancellare il debito nazionale, considerandolo immondo
perché immorale. Secondo le parole di Correa i governi precedenti
hanno alterato la costituzione facendo passare per legge, per
legittimo, per giusto e vero ciò che era falso. Non essendo così,
da quel momento in poi Correa si impegnò a far valere un nuovo
principio costituzionale: ciò che sarà giusto per la collettività
diventerà ciò che sarà legittimo.
L'Ecuador aveva al
tempo un debito di 11 miliardi di euro – una bazzecola – ma
questo non significò che una volta andato “in protesto”, il
paese venne cancellato dalla comunità internazionale. Il FMI di
Dominique Strauss-Khan lo isola, negando all'Ecuador di ottenere
aiuti da parte di chiunque. La nazione è piccola, poco ricca, poco
capace di sostentarsi da sola, sarebbe stato un suicidio, ma il
Venezuela di Chavez annuncia il suo contributo di gas e petrolio
gratis per l'Ecuador e subito vi si aggiungerà il Brasile con
foraggiamenti alimentari in forma di solidarietà internazionale;
seguirà la carne dell'Argentina a breve.
Ma alla fine di
questi due giorni, arriva forse la notizia più sconvolgente. Evo
Morales della Bolivia, annuncia di aver legalizzato la cocaina
considerandola una produzione nazionale e bene collettivo, tasserà i
produttori e di foglie alcaloidi e userà i proventi per finanziare
un prestito a tasso zero per l'Ecuador.
In questo modo la
piccola nazione dell'America Latina si è garantita una sopravvivenza
dignitosa e soprattutto trovò degli alleati in grado di sostenerla.
Fu il momento della svolta, il momento dell'attacco: la messa in atto
di un piano stabilito sicuramente anni o mesi prima di concerto con
gli altri Paesi del continente, volto a liberarsi dell'imperialismo
del Nord, con la “cocente” differenza che non attaccarono con
bombe e missili, ma con il diritto e la democrazia.
Passarono solo due
giorni che l'Ecuador denunciò la United Fruit Company e la
Del Monte & Associates per «schiavismo e crimini contro
l'umanità».
Anche l'Ecuador
possiede una sua “miniera”, ovviamente diversa da quelle cilene,
ma è una fonte di ricchezza che il mondo non è intenzionato a
trascurare, anche perché altrimenti avrebbe ignorato e “perdonato”
l'insolvenza dichiarata dallo Stato. Si tratta delle banane:
l'Ecuador è il primo Paese produttore mondiale di questo frutto e
fino ad allora era infestato dalla presenza di quelle due
multinazionali che questo Stato infine decise di sbattere fuori,
nazionalizzando l'industria agricola basandosi su un progetto
d'agricoltura biologica ed ecologia pura. In verità la partita che
l'Ecuador ha voluto giocare si imperniava sulle rivalità e sulle
opportunità economiche delle diverse compagnie di distribuzione
poiché ovviamente sarebbe del tutto inutile far valere la propria
legittima sovranità sulla terra e sui suoi frutti se poi le banane
resteranno a marcire.
Quindi piuttosto che
“in soccorso” ma per pura convenienza diverse imprese della
grande distribuzione (tra cui in Italia la Conad), insieme ai loro
partner politici (per lo più le aree di sinistra ecologiste)
si sono subito fatte avanti per assicurarsi contratti di fornitura
della lunghezza di decenni. In questo modo l'Ecuador è tornato
subito “in gioco” nello scacchiere dell'economia mondiale,
trovando una solida base monetaria come l'euro, poté persino far
quotare le sue aziende in borsa.
Tutto questo non
passò inavvertitamente sopra le teste di chi allora deteneva le
redini del commercio mondiale. Alla fine del 2008, davvero pochi
giorni prima che George Bush dovesse passare il testimone a Obama (17
gennaio 2009) l'ancora presidente degli USA raccolse la protesta
della United Fruit Company arrivando perfino a chiedere
l'espulsione dell'Ecuador dall'ONU per ricordare poi, come al solito,
“siamo pronti anche a una opzione militare per salvaguardare gli
interessi statenutensi.
Ma questa volta non
vi fu alcuna “Guerra per le Banane” rea una memoria
difensiva del potente studio legale newyorchese Goldberg &
Goldberg il quale con l'esposizione di un precedente legale a favore
dell'Ecuador riesce a far passare gli ambiti della comunità
internazionale la legittimità del concetto di «debito immorale».
Altra vittoria
praticamente completa, con la condanna della United Fruit Company
riconosciuta “multinazionale che pratica la corruzione politica”
(cosa per la quale dovrà porre un'ammenda di sei miliardi di euro),
e perché la vittoria si è nuovamente consumata sul “fronte
interno” del Nord del Mondo. Infatti il geniale precedente legale
citato dallo studio legale risale al 4 gennaio 2003, e fu proprio
George Bush a crearlo quando dopo aver invaso, occupato e “legalmente
conquistato” l'Iraq prendendosi in carico provvisoriamente le
funzioni di quello Stato sovrano, cancellò il debito di quel Paese
(250 miliardi di euro di cui 40 spettanti all'Italia) in quanto ovvio
che era moralmente inaccettabile per una nazione esportatrice di
democrazia rimetterci per i danni provocati di un nefasto dittatore.
Come si può capire,
ancora una volta qui non c'è all'opera la pura logica e l'etica
pulita del diritto, ma un intreccio di interessi appena sopiti da
accordi tra le nazioni più potenti (e quelle un po' meno forti) del
mondo che potevano tornare a contrapporsi con un battito di ciglia:
cosa erano, in fondo, sei miliardi di euro di una multinazionale di
fronte ai 250 che il tesoro americano avrebbe dovuto esborsare se
Obama non avesse preteso a Bush di gettare la spugna?
Certo: anche in
Nordamerica erano cambiate un po' di cose, il tempo di Bush era
finito, ma non per questo è negabile il fatto che
dall'insignificante Ecuador sia nato il Sudamerica moderno che
nonostante i tentativi di nasconderlo, di renderlo sconosciuto al
mondo come prima del 1492, distorcendone la percezione ha davvero le
qualità per essere almeno un po' e ancora il Nuovo Mondo
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