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Ditesti

giovedì 7 febbraio 2013

La rivoluzione dell'America Latina moderna



Più passano gli anni e più continua a perseverare il paradigma culturale scontatissimo che fa gioco in tutto l'Occidente, spaziando per il Nord America scendendo in Australia e Nuova Zelanda, per saltare nella regione scandinava e infine continuare a dilagare in tutta l'Europa. Quanto a Washington tanto a Berlino pensano o cercano di farci pensare che alla fine il mondo sia sempre lo stesso, quello di dieci, di cinquanta, di cento anni fa o ancora più vecchio. È quel fenomeno potentissimo e malato dell'Occidente indicato con il termine eurocentrismo. L'Italia tra tutte è la nazione maggiormente affetta da un costante bombardamento mediatico di carattere dittatoriale, atto a tenere sempre ravvivato questo concetto nella coscienza collettiva e multimediale, lasciandola senza la neppur minima idea di quello che accade nel resto del mondo. Ma ciò che più conta è che instilla a pensare ancora come nel 1812 con i suoi aut-aut: “Se crolla l'Europa crolla il mondo intero – se crolla l'euro, l'Europa si disintegra e scompare la civiltà nel mondo”, quando non è affatto così, lo è solo quando si ragiona ancora in termini coloniali.
Sembra che stia dicendo delle grandi stupidaggini poiché mi si potrebbe contraddire facilmente indicandomi invece i “grandi mutamenti del mondo”, la Cina per esempio, oppure ricordarmi dell'estemporanea esperienza delle Tigri Asiatiche degli anni '80-90 e di quella attuale nel comparto elettronico, concentrati nelle piccole realtà territoriali della Corea del Sud e di Taiwan. Ma in fondo, che cambiamento c'è realmente stato? Queste novità si impongono per tali poiché ci entrano per forza di cose nel piatto quando mangiamo, occupano gli angoli delle nostre case arredandoli, ci portano in giro su ruote o ci vestono ogni giorno. Non c'è un reale cambiamento – a mio avviso – perché per arrivare a tanto, tutto questo “nuovo” subisce un processo di dis-alienazione, specialmente sotto il profilo del famoso “metodo di produzione” marxiano, mentre di ciò che nasce diverso ed è intenzionato a restare tale, sembra destinato a subire la tacitazione sotto ogni profilo. Perché, per esempio, non si conosce della lotta politica tra il Brasile e l'Onu? Christine Lagarde, presidente del FMI ha l'incarico di gestire la sistemazione e le ripercussioni politico/simboliche della scalata nel rank del novero dei paesi industrializzati proprio del Brasile, il quale ha raggiunto l'ottava (e forse già la settima) posizione scavalcando, guarda un po', l'Italia.
Ecco un vero e inaspettato cambiamento mondiale sul quale in primo luogo pensano sia bene di non raccontarne troppo in giro, in quanto potrebbe venire a galla di come il fatto che la scelta programmatica di periodo medio-lungo, cioè la depauperazione della forza economica dell'Italia a favore delle economie centro-settentrionali dell'Europa (per salvare così l'euro e quell'idea di Europa antisociale e ultraliberista) produce anche uno sconquassamento generale della concezione geopolitica del mondo.
Difatti sarebbe alquanto difficile continuare a sostenere la crociata in difesa dell'euro, dell'Unione Europea, della civiltà occidentale quando un pezzo “storicamente” importante del continente come l'Italia scende di un gradino (o forse due) nella classifica dei più ricchi e potenti, con ciò che comporta dal punto di vista formale: l'Italia non potrà più partecipare ai summit del G8. Non è cosa sottovalutabile, dato che – poi – come si potrà mai sostenere che l'Italia e l'Europa «stanno facendo bene» se proprio uno dei paesi più vessati, al quale si è richiesto tra i maggiori sacrifici perisce e si perde per strada? Allora non sarà più vero che “si sta facendo bene” e che «usciremo dalla crisi». Si vogliono poi mettere le ripercussioni nello stipulare accordi di portata mondiale a un tavolo dove il Brasile sostituisce uno dei più servili alleati? È una bella gatta da pelare per i Big Five e per le economie trainanti europee poiché si torna sempre alla questione principale: “come si fa a dire che l'Europa è forte, se nella competizione e nell'evoluzione della storia mondiale ha perso un pezzo?”.
Quale soluzione sta cercando di trovare la Lagarde – a parte la giusta e doverosa presa d'atto che il mondo sta cambiando? (e questa signora non l'accetterà mai). Questa signora pensa di allargare quel novero delle grandi G da otto a dieci così da poter continuare a mantenere l'Italia in una posizione di prestigio. Secondo voi, il Brasile accetterà con spirito buonista e rispettoso della “storia dei privilegi” questa idea che sostanzia una reale espoliazione di credibilità internazionale, di sovranità, di peso specifico e politico e anche di capacità di influenzare le sorti del mondo? – poiché è ovvio: se io riesco a raggiungere una posizione per la quale posso dire finalmente la mia e farla contare concretamente, se tu mi annacqui tutto questo allargando la cerchia della discussione non solo sembrerà che io sono arrivato pur sempre dopo l'Italia, ma soprattutto mi pare chiaro che si sta tentando di mantenere le cose così com'erano.
Quanta parte ha preso la nostra nazione nell'opera di manipolazione dell'idea di mondo? Io credo che nonostante tutto l'affannato berciare e l'insensato sbraitare che mai si possa fare a livello diplomatico, oltre al rumore di fondo del coro la nostra diplomazia sia riuscita a sollevare e sollevarsi ben poco, è più probabile siano Inghilterra, Francia e Germania a interpretare il ruolo di nostri “protettori” ma quando mai noi stessi potremo credere seriamente che lo stiano facendo “per noi”? Queste nazioni si oppongono al Brasile per opporsi al trionfo del Keynesismo del Sudamerica che è un irruento ritorno di una filosofia nel teatro della storia, una leva efficace attraverso la quale diversi Paesi sono riusciti a guadagnare autonomia e indipendenza politica, proprio quella “pura nobiltà” tanto e quasi sempre assente a un paese di tradizione così blasonata come il nostro.
La concezione eurocentrica infesta e inquina la posizione politica dei “Grandi”; sembrano bloccati in una muscolare prova di forza incapace di mascherare poi troppo un atteggiamento arrogante e aggressivo nei confronti delle nazioni sudamericane. È più che un retaggio culturale ereditato dalla “Guerra Infinita” di Bush Junior, inscenata dopo l'11 Settembre.
Lo schiacciare tutto ciò che non è occidentale e ultraliberista contro il muro dei possibili Stati-canaglia, coacervi di fondamentalismi religiosi, fomentatori di attacchi terroristici e perciò passibili di “punizioni” sotto forma di guerre che poi terminano con le cacce all'uomo contro i leader politici (Saddam Husseim, Mohammad Gheddafi, Osama Bin Laden) secondo me è cosa manifestante una latente ignoranza nei confronti di possibili soluzioni alternative, una “sporca” e detestabile mancanza di mezzi, strumenti e volontà politica di mutare la strategia, anche a costo di arrivare allo scontro civile (o meglio “di civiltà”) e allo scontro sociale (o meglio alla depressione e repressione socioeconomica dei cittadini europei).
Tuttavia possiamo anche condividere il fatto che “la storia viene scritta dai vincitori”, ma perlomeno che i vincitori vincano prima di scriverla! E questo ancora non è avvenuto, la lotta politica tra Nord e Sud del mondo (è proprio il caso di riprendere questo genere di terminologia) è ancora tutta in corso e stavolta il Nord del mondo si trova a dover combattere dei paesi avanzati non solo dal punto di vista sociale ed economico, ma anche culturale. Qualcuno può riuscire a svilire la caratura culturale del Brasile, dell'Argentina, del Cile, della Colombia e del Venezuela? Sono posti popolati da genti che hanno il nostro stesso grado di accesso ai saperi e alle conoscenze, sono persone che hanno maturato concezioni culturali avanzate da ben per prima dell'innovazione tecnologica della comunicazione digitale e della globalizzazione del mondo. E quindi, non solo questi paesi sanno rispondere efficacemente all'oppressione del Nord del mondo, lo sanno fare senza correre il rischio di vedersi accusare per crimini contro l'umanità o d'essere focolai d'insorgenze millenariste e oscurantiste antieuropee e antioccidentali. Soprattutto il Sudamerica non ha paura di combattere i padroni; forse non l'ha mai avuta se vogliamo vedere la fortunatissima tradizione rivoluzionaria che ha creato gli Stati-Nazione in quel continente.
La storia “creata”, cioè quella mossa e voluta per iniziativa stessa dei popoli di quel continente tante volte ha subìto tentativi d'essere offuscata attraverso opere di diminuzione statuaria della reale consistenza dei Paesi sudamericani, con l'eurocentrismo che provava (e tutt'ora prova) a offrire una percezione di quel quinto di mondo al pari di una zona ancora coloniale, o di un'area particolarmente desertificata e depauperata, composta di culture disgregate e insignificanti. Invece la realtà è ben differente a partire dal principio per il quale il Sudamerica non ha dimenticato la sua natura costituente, ossia non ha mai gettato alle ortiche il suo passato insurrezionale e rivoluzionario, e ogni volta che le forze politiche più avanzate e progressiste si sono ritrovate a governare i Paesi, la tradizione popolare e democratica dell'America Latina è stata sempre rivendicata e proseguita con atti concreti; ogni volta che tutto ciò ha prodotto risultati concreti, presto le Nazioni a capo del Nord del mondo si sono poste in senso ostruzionistico rispetto ai latini, ed è ciò che sta caratterizzando in questo periodo storico le vicende delle relazioni internazionali tra questi poli mondiali, poiché dopo la grande crisi dell'Argentina – forse il primo caso di default di un'economia nazionale, per usare categorie d'ultimo grido – sia il Paese delle Pampas sia tutti tutti gli altri suoi vicini sono riusciti a risollevarsi “alla grande”, ma attraverso ricette e scelte di economia politica che alcuni hanno definito “keynesiane” e che in special modo Paesi come America, Germania e Inghilterra, semplicemente non possono sopportare in quanto incrinano e mettono vigorosamente in discussione il loro sistema di dominio.
Il Nord del Mondo, tuttavia, sembra deciso a voler perseverare la scia del neo-imperialismo sperimentato alla fine del Novecento e portato avanti in modo sordo e strisciante fino a oggi, con un miscuglio d'ingerenza ignorante delle diversità e delle specificità di ogni Paese che in certi casi sfocia in opzioni militari più o meno mirate e che – per la maggior parte – si manifesta come ottusa opposizione tesa a schiacciare.
In questo caso, però, l'Occidente si trova ad avere a che fare con una comunità di Stati che a dire il vero mai fu incline alla sottomissione, forse neanche nell'epoca del colonialismo, perché capace di dare risposte forti e poderose le quali, se non sono di pubblico dominio mondiale è solo per colpa di un'articolata e mirata opera censoria.
Per esempio, questa estate, vi fu il caso di Jules Assange – era con l'acqua alla gola il 15 di giugno, con Scotland Yard in procinto di arrestarlo per estradarlo in Svezia dove al posto di un processo regolare, avrebbe sicuramente trovato due agenti della CIA statunitense. In luogo di doversi difendere dal reato di violenza carnale che gli era contestato, in una sperduta e segreta corte d'America, Assange sarebbe stato giudicato per sua posizione e attività nel conflitto bellico dichiarato tra Nato e Iraq, e quindi sottoposto alla legislazione antiterrorista del Patriot Act statunitense.
Le vicende che hanno portato fama al “più o meno hacker” Julien Assange sono abbastanza note, così come sembrava ineluttabilmente noto il finale della sua storia, perché caduto sotto il mirino delle potenze estreme e maggiori che non gli avrebbero lasciato scampo in quanto “il crimine non paga”. Inaspettatamente le sorti di quest'uono cambiarono. Anche allontanandosi da un'atmosfera persino cinematografica o romanzesca, Assange entrò all'Ambasciata dell'Equador di Londra il 19 giugno 2012 in completo silenzio, praticamente sotto gli occhi di tutti e da quel momento, il suo novero di Wikileaks insieme ai diplomatici del piccolo Paese iniziarono la trattativa con gli agenti inglesi, con gli svedesi e con i colleghi diplomatici americani a Rio de Janeiro. A quanto pare, la mossa di Assange ha spiazzato di netto la tre quarti più potente dell'intellighenzia mondiale, rovesciando completamente il fattore “timore”. Per una qualche ragione gli Stati potenti non furono più affatto propensi a innescare una guerra diplomatica con l'Equador a pochi giorni dalle Olimpiadi, e parve che cercarono di sottacere tutto il possibile dando in cambio, ad Assange, la libertà di trasferirsi in America del Sud dove con molta probabilità si trova nel momento in cui sto scrivendo.
Perché, allora, questa vicenda ha pur tuttavia avuto rilievo nelle cronache mondiali, per non dire che tenne banco per qualche giorno? Semplice! In quanto Wikileaks fece più che bene a non fidarsi dei potenti padroni del Nord del Mondo momentaneamente rabboniti dal timore per le sorti di un evento sportivo/mediatico/comunicativo di levatura mondiale (le “insulse” – se rapportate a ben altri determinanti o sciagurati eventi – Olimpiadi) e lavorarono rappresentandosi con più d'una diplomazia dell'America Latina. I risultati possono essere estrapolati dalla concatenazione degli eventi.
Questo concatenarsi di cose avvenute tra Nord e Sudamerica intanto vede l'esistenza di una consociazione internazionale chiamata ALBA, acronimo molti più gradevole del famigerato NAFTA, e per dimostrarne l'essenza basta svelarlo: “Alianza Laburista Bolivariana Americana”. Il 3 agosto 2012 – cioè qualche settimana dopo lo scatenarsi dell'Affaire Assange, ALBA fu rappresentata nella persona del ministro dell'economia dell'Ecuador Patino, il quale accompagnò negli Stati Uniti la presidente dell'Argentina Cristina Kirchner. La signora Kirchner quel giorno fece qualcosa di spettacolare ed eccezionale per la storia delle relazioni internazionali: con un anticipo di 16 mesi si fece riprendere e fotografare a firmare simbolicamente un gigantesco assegno stampato su un cartellone che garantiva la somma di 12 miliardi di euro al Fondo Monetario Internazionale creditore dell'Argentina. Per mettere il tutto meglio in risalto la data di scadenza riportata dal “pagherò” fu fissata al 31 dicembre 2013.
Sappiamo benissimo che il saldo anticipato di un debito è cosa 'sì rara anche tra comuni persone e per importi banali; il gesto della Kichner non può essere sottovalutato quindi, è stato una dimostrazione di forza, coraggio e persino d'etica e giustizia sociale incredibile. La Repubblica Argentina dimostra al mondo intero la sua credibilità come debitore assolvente, tornando con una veste indiscriminabile da parte delle agenzie di ratings a essere una nazione attendibile e affidabile per chiunque voglia investire i suoi soldi.
Qual è il segreto dell'Argentina? In che modo è riuscita a compiere un miracolo che per diverse nazioni europee sembra un mistero inaccessibile? Detta in sintesi la storia del primo decennio del XXI secolo vede il primo default di un'economia nazionale toccare proprio alla nazione di cui discutiamo, per una somma di 112 miliardi di dollari; una cifra sì enorme, ma una cifra stanziata e calcolata. Una volta avvenuto il disastro il Paese, in primo luogo, scelse di evitare la melma della sudditanza coloniale; rifiutò di accodarsi alla pletora degli sciagurati e sottomessi Paesi che implorano la “Cancellazione del Debito”.
La dignità esiste per le nazioni quanto per i singoli individui, poiché le nazioni possono (devono?) essere un popolo di individui. Quindi sia i Paesi sia gli uomini degni di loro stessi, quando si trovano in condizioni tali e rifiutano la schiavitù, semplicemente dichiarano fallimento, bancarotta, si pongono in uno stato d'essere “tecnico”, lecito, previsto dall'ordinamento sociale che gli consente di continuare a vivere mantenendo la propria autonomia di scelta. Con questa scelta l'Argentina ottiene il termine di 10 anni per saldare il debito e trascorrere tutto questo tempo in forte opposizione contro le pretese del FMI – il quale è noto, ha funzione di imporre ai Paesi debitori misure di natura economica – che chiaramente voleva l'Argentina come primo laboratorio per realizzare quella Austerity che oggi attanaglia mezza Europa. Il Paese delle Pampas seguì una strada diversa e opposta: un keynesismo di bilancio sociale, per un benessere equo e sostenibile a partire dagli investimenti nelle infrastrutture e molto altro – investire, invece di tagliare. I risultati si sono visti il 3 agosto 2012.
L'insegnamento storico da trarre è indiscutibile: le idee del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale sono sbagliate; fossero davvero loro le cattedre infallibili che ordinano il mondo e la sua costituzione, l'Argentina non sarebbe mai riuscita in tanto, e sicuramente nulla gli fu concesso da loro.
Un'altra cosa strabiliante da sottolinearre è la conformità e la regolarità di questa democrazia sudamericana nei confronti dei principi del diritto occidentale; una sorta di schiaffo morale senza dubbio alcuno verso quelle istituzioni che non solo sono sovranazionali per loro stessa natura, ma che da sempre riescono con facilità a trovare modi per calpestare le stesse cose che dovrebbero difendere e garantire. Ma la presidente Kirchner fece ben di più, perché il 3 agosto 2012 non si concluse con la faccenda dell'assegno. Appena “sistemati i conti” con l'FMI la signora presentò una denuncia contro Gran Bretagna e Stati Uniti al WTO, coinvolgendo anche l'FMI con cui aveva appena “chiuso la partita”, utilizzando proprio (guarda un po') alcuni documenti messi a disposizione da Wikileaks, cioè da Assange.
L'Argentina saldò il suo debito, ma volle i danni con tutti gli interessi composti. Sfruttando la trascrizione di diverse conversazioni in più cancellerie del globo, che coinvolgevano gli USA, la Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, lo Stato della Città del Vaticano, Wikileaks ha messo a disposizione materiale soprattutto di tipo economico, soprattutto di molte delle politiche economiche keynesiane discusse dai potenti che progettavano su come metterle ancora una volta in ginocchio, insieme all'economia del Sud America, portando via le risorse energetiche, impedendo la ripresa, bloccando la crescita, negandogli l'autodeterminazione economica, per imporre i diktat del Fondo Monetario il cui scopo, sarebbe, di riportare l'America Latina al servizio di economie europee attualmente in difficoltà: Spagna e Italia, più la Germania che vuole sempre la sua parte, più l'Inghilterra che la otterrà mettendoci i suoi capitali.
Gran parte di questa documentazione è pubblica su Internet e sono una gran parte di ciò che Assange portò in dote all'Ambasciatore dell'Ecuador in Londra. Se vogliamo possiamo dire che il gesto di Assange fu una scelta di oculata convenienza politica: andò a chiedere protezione a un paese “nemico dei suoi nemici” e probabilmente il biondissimo Hacker era a conoscenza del fatto che la nazione equatoriale è stata il primo Paese di lingua e cultura occidentale, che dopo la divisione del globo nei blocchi (1948), applicò il concetto di “debito immorale”; ovvero il rifiuto politico e tecnico di saldare alla comunità internazionale i debiti consolidati dello Stato se ottenuti dai governi precedenti attraverso la corruzione e la violazione dello stato di diritto e il tradimento della costituzione. Questo, forse, Assange lo sottovalutò, o forse non lo calcolò proprio, ma possiamo perdonarlo se ora ci perdona il fatto che non lo richiameremo più, in quanto i protagonisti stanno cambiando.

Era il 12 dicembre 2008 quando il neopresidente dell'Ecuador Rafael Correa dichiara ufficialmente in diretta televisiva per tutto il continente latino la decisione di cancellare il debito nazionale, considerandolo immondo perché immorale. Secondo le parole di Correa i governi precedenti hanno alterato la costituzione facendo passare per legge, per legittimo, per giusto e vero ciò che era falso. Non essendo così, da quel momento in poi Correa si impegnò a far valere un nuovo principio costituzionale: ciò che sarà giusto per la collettività diventerà ciò che sarà legittimo.
L'Ecuador aveva al tempo un debito di 11 miliardi di euro – una bazzecola – ma questo non significò che una volta andato “in protesto”, il paese venne cancellato dalla comunità internazionale. Il FMI di Dominique Strauss-Khan lo isola, negando all'Ecuador di ottenere aiuti da parte di chiunque. La nazione è piccola, poco ricca, poco capace di sostentarsi da sola, sarebbe stato un suicidio, ma il Venezuela di Chavez annuncia il suo contributo di gas e petrolio gratis per l'Ecuador e subito vi si aggiungerà il Brasile con foraggiamenti alimentari in forma di solidarietà internazionale; seguirà la carne dell'Argentina a breve.
Ma alla fine di questi due giorni, arriva forse la notizia più sconvolgente. Evo Morales della Bolivia, annuncia di aver legalizzato la cocaina considerandola una produzione nazionale e bene collettivo, tasserà i produttori e di foglie alcaloidi e userà i proventi per finanziare un prestito a tasso zero per l'Ecuador.
In questo modo la piccola nazione dell'America Latina si è garantita una sopravvivenza dignitosa e soprattutto trovò degli alleati in grado di sostenerla. Fu il momento della svolta, il momento dell'attacco: la messa in atto di un piano stabilito sicuramente anni o mesi prima di concerto con gli altri Paesi del continente, volto a liberarsi dell'imperialismo del Nord, con la “cocente” differenza che non attaccarono con bombe e missili, ma con il diritto e la democrazia.
Passarono solo due giorni che l'Ecuador denunciò la United Fruit Company e la Del Monte & Associates per «schiavismo e crimini contro l'umanità».
Anche l'Ecuador possiede una sua “miniera”, ovviamente diversa da quelle cilene, ma è una fonte di ricchezza che il mondo non è intenzionato a trascurare, anche perché altrimenti avrebbe ignorato e “perdonato” l'insolvenza dichiarata dallo Stato. Si tratta delle banane: l'Ecuador è il primo Paese produttore mondiale di questo frutto e fino ad allora era infestato dalla presenza di quelle due multinazionali che questo Stato infine decise di sbattere fuori, nazionalizzando l'industria agricola basandosi su un progetto d'agricoltura biologica ed ecologia pura. In verità la partita che l'Ecuador ha voluto giocare si imperniava sulle rivalità e sulle opportunità economiche delle diverse compagnie di distribuzione poiché ovviamente sarebbe del tutto inutile far valere la propria legittima sovranità sulla terra e sui suoi frutti se poi le banane resteranno a marcire.
Quindi piuttosto che “in soccorso” ma per pura convenienza diverse imprese della grande distribuzione (tra cui in Italia la Conad), insieme ai loro partner politici (per lo più le aree di sinistra ecologiste) si sono subito fatte avanti per assicurarsi contratti di fornitura della lunghezza di decenni. In questo modo l'Ecuador è tornato subito “in gioco” nello scacchiere dell'economia mondiale, trovando una solida base monetaria come l'euro, poté persino far quotare le sue aziende in borsa.
Tutto questo non passò inavvertitamente sopra le teste di chi allora deteneva le redini del commercio mondiale. Alla fine del 2008, davvero pochi giorni prima che George Bush dovesse passare il testimone a Obama (17 gennaio 2009) l'ancora presidente degli USA raccolse la protesta della United Fruit Company arrivando perfino a chiedere l'espulsione dell'Ecuador dall'ONU per ricordare poi, come al solito, “siamo pronti anche a una opzione militare per salvaguardare gli interessi statenutensi.
Ma questa volta non vi fu alcuna “Guerra per le Banane” rea una memoria difensiva del potente studio legale newyorchese Goldberg & Goldberg il quale con l'esposizione di un precedente legale a favore dell'Ecuador riesce a far passare gli ambiti della comunità internazionale la legittimità del concetto di «debito immorale».
Altra vittoria praticamente completa, con la condanna della United Fruit Company riconosciuta “multinazionale che pratica la corruzione politica” (cosa per la quale dovrà porre un'ammenda di sei miliardi di euro), e perché la vittoria si è nuovamente consumata sul “fronte interno” del Nord del Mondo. Infatti il geniale precedente legale citato dallo studio legale risale al 4 gennaio 2003, e fu proprio George Bush a crearlo quando dopo aver invaso, occupato e “legalmente conquistato” l'Iraq prendendosi in carico provvisoriamente le funzioni di quello Stato sovrano, cancellò il debito di quel Paese (250 miliardi di euro di cui 40 spettanti all'Italia) in quanto ovvio che era moralmente inaccettabile per una nazione esportatrice di democrazia rimetterci per i danni provocati di un nefasto dittatore.
Come si può capire, ancora una volta qui non c'è all'opera la pura logica e l'etica pulita del diritto, ma un intreccio di interessi appena sopiti da accordi tra le nazioni più potenti (e quelle un po' meno forti) del mondo che potevano tornare a contrapporsi con un battito di ciglia: cosa erano, in fondo, sei miliardi di euro di una multinazionale di fronte ai 250 che il tesoro americano avrebbe dovuto esborsare se Obama non avesse preteso a Bush di gettare la spugna?
Certo: anche in Nordamerica erano cambiate un po' di cose, il tempo di Bush era finito, ma non per questo è negabile il fatto che dall'insignificante Ecuador sia nato il Sudamerica moderno che nonostante i tentativi di nasconderlo, di renderlo sconosciuto al mondo come prima del 1492, distorcendone la percezione ha davvero le qualità per essere almeno un po' e ancora il Nuovo Mondo


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