Paolo Augusto in fin dei conti non ha molto da lamentarsi della sua vita, è vissuto e poi è morto e qualcuno l'ha fatto risorgere senza neanche l'ansia da profezia «secondo le scritture» che lo avrebbe costretto a star nei tempi altrimenti nessuno gli avrebbe data la legittimità necessaria - ché ogni cosa "necessaria" è coercitiva nonché adesa strettamente al Dominio.
Neppure chi l'ammazza e poi lo fa rialzare con una scarica da 100 TeraWolts catturata con un aquilone può dire di passarsela male. Potrei "parallelare", "analogare" con «Il giocatore» di Fëdor Michajlovič Dostoevskij e farla sottile, sottilissima, sottiletta filante finissima scrivendoTi/Vi che durante la fatica della cattura del senso emozionato correlato al gioco d'azzardo lo scrittore v'inscriveva dentro quella febbricitante alacrità di scrivere per pagarsi i debiti tenendosi sveglio a tè forte e sigarette che gli macchiavano le mani come l'inchiostro mentre violentava il manoscritto.
Però qui si torna sempre alla primigeneità dell'«opera prima», quando volevo spacciare che ogni cosa è un fondo di bottiglia da bersi fino in fondo. Sicuramente, l'epifenomeno dell'ubriacone è ciò che mi si attaglia meglio: godo nello scialacquare il tempo annacquando l'impegno in qualcosa simile all'alcol, delirare d'onnipotenza quando s'ascende a una vetta irraggiata di luce mistica o mi sporco le dita d'essenza toccando il fondo di qualcosa, scavando - all'apice dell'ebbrezza di un'instabilità calcolata, e tutto torna perfettamente a conto, bello tondo e ragionevole, quando il flutto rifluisce torbido come un gorgo di tombino nella depressione e mollezza del post sbornia e tutto il suo intorpidito e dolente male alla testa.
Scaracchiare amarezze sul marciapiede con gli occhi torvi e il mento sul petto, è qualcosa di piacevole, qualcosa che possiamo permetterci io, De Andrè, i «quattro pensionati» della «Città vecchia» di cui cantava, e chi accetta o invita di «farti un giro dentro di me | o questo fuoco si spegnerà da sé»
P.Ag
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