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sabato 16 aprile 2022

Vampiri la Masquerade, clan Giovanni: una noticina su quello che si potrebbe leggere in Catullo

 

Durante una delle mie letture, mi sono imbattuto in un carme di Catullo (il XXIV) e ho fatto un gran sogghigno, perché subito m’è salito in cima ai pensieri che a volte la roba stampata dalla White-Wolf càpita come casi assolutamente fantastici, con quel suo non so che di “magico” che non si spiega, e per un istante quasi si crede sul serio che sia possibile imboccare per la strada il vicolo giusto o sbagliato che sia (bisogna mettersi al di sopra di coppie antagoniste come queste) e trovare per davvero il vero Mondo di Tenebra.

Sarà che al di là delle polemiche saltate fuori negli ultimi anni all’uscita della Quinta edizione, che ha scosso le legittime sensibilità delle comunità dei giocatori, il Mondo di Tenebra è un sistema ludico così elastico che, no! Errato: la realtà è elastica e porosa; la realtà che percepiamo per produrre storie è frutto di narrazioni affastellate una sull’altra con lo stesso ordine che regna in un pagliaio, e il Mondo di Tenebra è stato creato come uno strumento affilato, sottile e snodato quanto una serpe: s’infila in ogni e qualunque cosa, se vuole, circondando e costringendo.

Così veniamo a Catullo, che ai tempi di Giulio Cesare dava inizio a una sua poesia:

O qui flosculus es Ioventiorum.

E perché? Che non dovrebbe essere una grafia tra le probabili e le possibili dei Iovani, o Iovane? Certamente non Jovani, come troviamo nelle pubblicazioni della White-Wolf, perché la i-lunga non era adottata dai Romani, c’era solo la I, capitale o meno. Che poi il curatore dell’edizione di Catullo in mio possesso (Alfonso Traina) si preoccupò di sottolineare che gli Ioventi o Giovenzi erano una gens romana d’incerta origine, secondo la storia provenienti dall’insediamento laziale di Tuscolo.



O qui flosculus es Ioventiorum,

Non horum modo; sed quot aut fuerunt

Aut posthac aliis erunt in annis,

Mallem divitias Midae dedisses

Isti, quoi neque servus est neque arca,

Quam sic te sineres ab illo amari.

«Qui? non est homo bellus?» inquies. Est;

Sed bello huic neque servus est neque arca.

Hoc tu quam lubet abice elevaque;

Nec servum tamen ille habet neque arcam,

Tu che sei il più bel fiore dei Giovenzi,

non di quelli di oggi solamente

ma di quanti mai furono e saranno,

preferirei che avessi regalato

tutti i tuoi soldi al Mida che tu sai,

che è senza schiavo e senza cassaforte,

invece di permettergli d’amarti.

«Come? Non è simpatico?» Ma sì,

ma è senza schiavo e senza cassaforte.

Tu non metterlo in conto, minimizza;

ma resta senza schiavo e cassaforte.


Ma cosa importerebbe davvero di fronte alla notizia di una presenza di tali “Ioventi” fin su a Verona, città natale dello stesso poeta? Che poi, in fondo, degli inizi reali dei cosiddetti Jovani non si sa nulla; parrà davvero tanto brutto riportarli in palma di mano ai primissimi secoli di Roma?

E c’è dell’altro in questa breve poesia; non molto, ma verso dopo verso essa fa senz’altro sogghignare. Il carme è dedicato per l’appunto a un bella figlia dei Ioventi. Per Catullo la più bella di tutte, giudizio che pare suonare come una lusinghevole iperbole conoscendo l’autore quel tanto che basta, per sapere che rare volte è stato serio e grave nei versi. Ma ecco che questa bella sulla quale ha messo gli occhi: Non horum modo; sed quot aut fuerunt / Aut posthac aliis erunt in annis.

D’accordo: è un’ottima formula retorica, poc’altro che una frase fatta ben incastrata nella metrica, ma perché privarsi di quel vizio gustoso di trovarci per i nostri scopi un augurio oracolare su un futuro allora lontano e inimmaginabile? Che ne sappiamo cosa si poteva fare allora trafficando con simboli, erbe e alterazioni della coscienza? Veramente possiamo dire di saperlo abbastanza bene, tanto quanto si sa che Roma sul finire della Repubblica non aveva ancora portato il mondo all’Età della Ragione – e non era neanche il suo scopo storico, stando al commento di qualcuno.

Tuttavia non divago oltre su faccende dei maghi che cercano Ascensione, perché adombrerebbe il motivo per cui Catullo scrive: il forte disappunto verso codesto bel fiore (era un romantico, ma non c’era soltanto Lesbia per lui), che invece se la fa con un «non nominatur hic», ma altrove detto Furio, secondo Catullo becero pezzente avido che cacava dieci volte l’anno in tutto per quant’era tirchio (carme XIII).

Non pare che la questione dei soldi, guarda il caso, spunti centrare e chiuda il cerchio? Lo so: mancherebbe qualcosa sulla morte, ma Catullo non era quel tipo di poeta.

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