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Ditesti

lunedì 3 aprile 2017

Disoccupati e videogiochi: la stronzata dell'Escapismo Virtuale.

  Ryan Avent è un colonnista della prestigiosa testata The Economist, ha scritto di recente un articolo (aprile/maggio 2017) che è stato segnalato dalla testata online italiana Multiplayer.it per due ottime ragioni: l'articolo parla di videogiochi e mette in evidenza come questi possano rivestire un ruolo rischioso e negativo per una gran fetta di uomini (secondo l'autore soprattutto individui maschi) nell'impedirgli di trovare lavoro o di migliorare la loro attuale condizione lavorativa. In estrema sintesi, la tesi di fondo è che i videogiochi assorbono fin troppa parte del tempo e delle energie di alcuni individui in condizioni specifiche e “particolari”, “rallenta” la loro maturazione professionale e umana prolungando uno stato da “figlioloni” ben oltre la tarda adolescenza e, nel qual caso un individuo in particolare incappi in una difficoltà o in un fallimento, i videogiochi possono diventare un gorgo che risucchia tutto il loro tempo, annullando le altre attività. Insomma: un amante dei videogiochi, da disoccupato rischia di diventare completamente  dipendente dai Videogame e di non uscire più da questa dimensione, rendendo così e di fatto inutili ogni politica o campagna sociale finalizzata alla formazione e all'inserimento nel mondo del lavoro.
  A sostegno di questo tesi Avent chiama in causa autorevoli ricerche statistiche:

«L'articolo riporta dei dati precisi e afferma che tra il 2000 e il 2015 negli Stati Uniti la percentuale degli occupati di vent'anni senza una laurea è passata dall'82 al 72%. Soprattutto il dato del 2015 è preoccupante: BEN IL 22% DEI FACENTI PARTE DI QUESTO GRUPPO NON HA LAVORATO NEI DODICI MESI PRECEDENTI»
(Fonte e traduzione: Multiplayer.it)

  Più a fondo ancora la radice di questo articolo, e del pensiero del suo autore, sembrano tradire una “certa ideologia”. È sicuro che non tutti i disoccupati finiscono con l'essere dei gamer accaniti incapaci di risollevarsi, la questione sociale della dipendenza dalle Console non pare essere esattamente una piaga prioritaria, tuttavia l'autore sembra gettare uno sguardo su queste persone carico al tempo stesso di compassione e disprezzo: sono dei “falliti”, e nel loro fallimento sono persino irrecuperabili poiché non c'è nulla che si possa fare per loro. Leggendo l'articolo fino alla sua conclusione questo apparirà lampante. 
  Un articolo peggiore di questo non può essere scritto, specialmente se si vuole connettere il settore dei videogiochi al mondo del lavoro. Avent parla poco (e male) di economia e fa fin troppo il moralista giudicando preconcettualmente persone giovani e meno giovani in difficoltà lavorative e condizioni economiche precarie: sono dei “poveri falliti”. 
  L'articolo si snoda riportando una serie di “storie” di gente comune dai background diversi tra loro solo relativamente, e ciascuna storia mostra una “sfaccettatura” del problema. I primi tre casi sono davvero “emblematici”, i successivi invece non funzionano granché, anzi sembrano allungare stancamente il testo costringendo l'autore a doversi ripetere, forse perché non coglie i reali nessi economici dietro e dentro queste storie
  Il caso uno parla di un giovane studente appassionato d'informatica che finito il College in America prova a fondare una sua piccola azienda nel settore del Digital Entertainment, ma fallisce; si ritrova a giocare tutto il giorno come valvola di sfogo della frustrazione. Il caso due racconta di un giovane precario che dopo la scadenza di uno dei suoi contratti di lavoro, rientra ad abitare in casa dei genitori, e nell'attesa di trovare un nuovo impiego trascorre gran parte del suo tempo a giocare, fino ad arrivare al punto di trascurare la ricerca di un nuovo lavoro o di un lavoro davvero serio, dichiarandosi felice e contento di poter lavorare solo ogni tanto, così da avere molto tempo da dedicare alla sua passione. Il caso tre infine è quello di un giovane neolaureato in Legge che nel suo momento "topico” e critico della sua vita realizza che in realtà di fare l'avvocato non gli importa proprio nulla, quindi abbandona il progetto professionale per darsi alla sua vera passione, i videogiochi.
  Se si vuole fare un discorso di economia su questi casi allora innanzitutto va constatato che la “monomania videoludica” non è l'unica causa degli epiloghi(?) descritti. C'è sicuramente dell'altro, qualcosa di più pesante dell'attrazione per il gaming. Per esempio sul “caso 1” si può discutere del famoso modello aziendale delle Startup, diffusissimo nel settore dell'informatica. In America se hai delle buone competenze e delle belle idee è facilissimo poter aprire la ”TUA AZIENDA” perché le Big (proprio come Google e Facebook) offrono ben volentieri ai giovani di grandi speranze dei finanziamenti anche a titolo di donazione per sviluppare i loro progetti. Il patto naturalmente consiste nel fatto che il giovane programmatore dovrà cedere parte o tutti i suoi diritti su quanto crea al Big. Alle grandi conviene far così poiché spendono molto meno per la ricerca e lo sviluppo, non so dire quanto può piacere ai giovani neolaureati, anche se molti credono di poter diventare miliardari a 27 anni. Fatto sta che molto spesso le Startup non falliscono per sfiga, ma i loro sono dei “fallimenti programmati”, le sovvenzioni a un certo punto s'interropono e se il progetto non ce la fa ad andare avanti con le sue forze viene travolto. Per il “caso 2” la storia è meno complicata e le conseguenze non sono sempre il ritrovarsi chiusi in una stanza attaccati al PC. Pensate semplicemente a un qualunque individuo con competenze e professionalità impiegabili solo all'interno di un mercato del lavoro ristretto al precariato, pensate alla fatica che si può fare per trovare un impiego e, con il passare degli anni, mentre l'individuo invecchia biologicamente, esaurisce non solo la possibilità di rinnovarsi e di migliorare i suoi titoli con corsi e Stage, ma vede svanire anche la REALE possibilità di trovare un lavoro decentemente pagato; infine tutto questo non sfocia in modo inesorabile e ineluttabile con questa persona che inizia a considerare più qualsiasi cosa piuttosto di un lavoro di merda trovato di quando in quando? Il “caso 3” non poteva essere scelta più infelice da parte dell'autore. Di certo non soltanto in Italia c'è un numero di laureati in Giurisprudenza “a spasso” da mettere paura. Cosa c'è di profondamente sbagliato nell'accorgersi alla fine degli studi di non voler fare il lavoro per cui si è presa una laurea? Umanamente nulla, ma se vogliamo affrontare la questione sotto il profilo “socioeconomico” è obbligatorio riflettere perlomeno sulle offerte e sulle politiche formative nonché sui percorsi di tirocinio per diventare dei «professionisti». Avent non vuole prendere in considerazione niente di quanto sollevato per nessuno dei tre casi, secondo lui un gamer non scivola nella disoccupazione o nel precariato per nessuna delle «concause» citate, per lui c'è solo una causa e cerca di dimostrarlo con uno schemino di Microeconomia che non regge di fronte alla realtà dei fatti. Davvero: Avent ha visto un altro film. 
  Secondo il ragionamento di Avent i videogiochi sono dei beni voluttuari di basso costo, quindi facilmente acquistabili dalla maggioranza delle persone in grado di avere un tenore di vita superiore alla sussistenza, anche dal tipo di consumatore senza reddito tra i 20 e i 35 anni che vive in casa dei genitori o di altri parenti a spese loro. Per Avent e per le sue fonti i videogiochi sono possono offrire un grado di «felicità» molto alto; non è sciocco chiamare in causa la felicità come parametro di analisi perché è proprio questa uno degli obiettivi morali degli studi economici. Inoltre , quando la felicità creata dai videogiochi si mescola con altri fattori tra cui l'Escapismo Virtuale, il valore epicureo dei videogiochi diventa assoluto fino a far diventare l'Escapismo Virtuale dimensione primaria dell'individuo, condizionandone completamente il comportamento. Il gamer accanito rifugiato nella realtà virtuale dei videogiochi, calcola e progetta tutto se stesso in funzione della possibilità di giocare il più possibile, accetta un tenore di vita basso, lavori squalificati o non lavorare proprio, trascurando ogni cura-di-sé al di fuori della sfera videoludica. Le conseguenze  sull'individuo sembrano essere – a giudizio di Avent – principalmente il blocco della maturazione personale; insomma non si diventa mai davvero adulti. Mentre in un più ampio livello economico e sociale, date le statistiche chiamate in causa da Avent, si constata un IRREVERSIBILE calo della quantità e della qualità delle risorse umane disponibili e la forza-lavoro sarà poco incentivata a essere molto produttiva: tanti giovani uomini non vogliono lavorare perché per loro i videogiochi sono più importanti di ogni altra cosa.
  Avent sbaglia completamente la lettura della realtà, perché i videogiochi non sono più quelli da lui presi in considerazione, sono cambiati radicalmente ed esattamente nella loro STRUTTURA ECONOMICA. 
  Attualmente la MASSA dei videogiochi di MASSA fenomeno di MASSA che sicuramente ricadono nell'evidenza statistica del videoplayer sfaccendato, squattrinato e disoccupato non costano poco, ma sono tutti completamente è assolutamente gratuiti. La formula del free-to-play si è velocemente affermata in vetta dell'indice di gradimento della comunità videoludica mondiale ed è l'ultimo ritrovato di questa precisa evoluzione ECONOMICA della merce: dal prodotto acquistato presso un negozio fisico o digitale e “consumato” così com'è, al videogioco fruibile dietro pagamento di un abbonamento periodico, per poi evolversi a versioni "parzialmente gratuite" dove si accendono a dei CONTENUTI PREMIUM pagando, per finire – oggi – su videogiochi articolati, complessi e raffinati, dove tutti i contenuti e le opzioni sono disponibili gratuitamente per tutti gli utenti, SOLTANTO CHE, chi acquista con moneta reale questi contenuti Premium, li ottiene SUBITO, invece di giocare/sgobbare per mesi interi. Tutto questo abbatte quasi completamente i costi per giocare – restano necessari solo un PC o una Console e la connessione a internet – e al tempo stesso rende UGUALE E DIVERSA l'esperienza di gioco tra tutti gli utenti. Infatti il meccanismo economico è persino bizzarramente democratico: questi videogiochi si reggono sulla creazione e sull'uso di monete virtuali spendibili solo all'interno dei loro "mondi". Queste monete virtuali sono diventate la chiave di volta è l'essenza stessa dei grandi videogame online di massa (MMORPG): il player gioca e guadagna moneta virtuale, e questa può essere spesa in tutti gli scambi economici all'interno del gioco dove acquistare tutti i contenuti Premium, oppure giungere ad avere così tanta moneta virtuale da poter pensare a un suo diverso utilizzo. Poiché Internet per sua natura non può essere limitato o ridotto a un campo di universi paralleli chiusi senza comunicazioni tra di loro, è praticamente naturale che i giocatori più bravi, più assidui è più virtualmente ricchi trovino modo di trasformare la loro moneta virtuale in moneta reale vendendo oggetti del gioco o altre cose per dollari, euro, yen, rubli e pesos. 
  Questo fenomeno non può essere vietato o arginato da nessuno, e in realtà invece di essere un fenomeno che va a danno delle aziende videoludiche, innesca per loro dei circuiti virtuosi perché aumenta i fattori di competizione, di emulazione e di accanimento dei giocatori: per un player che passa 10 ore al giorno a giocare, senza dare alla ditta che eroga il servizio un centesimo e anzi sopra ci fa un pochino di cresta, ve ne sono almeno mille disposti a spendere del denaro per stare al passo. 
  Ovviamente vivere di Videogame è difficile, è come diventare atleti professionisti, scrittori di successo, artisti famosi; è molto spesso i rari casi di pro-gamers sono semplicemente sovvenzionati dalle aziende del settore per questioni di Marketing, ma è una questione di semplice matematica: chiunque giochi per almeno otto ore al giorno tutti i giorni, verrà a ritrovarsi nel giro di qualche mese con un SURPLUS di beni virtuali che potrà reimpiegare. Forse è proprio questo il nodo cruciale per alcune persone che a un certo punto mettono da parte scuola, formazione professionale, ricerca di un lavoro, impegno sul lavoro, per illudersi o sperare di poter tirare avanti in qualche modo. 
  A questo punto, e di fronte a questo scenario, è doverosa la domanda: ma siamo proprio sicuri che esiste l'Escapismo Virtuale?
  Le persone cercano delle realtà alternative per essere qualcuno o qualcosa di diverso dalla realtà attuale, per vivere in un mondo dalle leggi sociali e anche fisiche differenti; la VOLONTÀ di essere migliori di quello che si è, di avere quel successo che manca nella realtà concreta è solo un “insieme più ristretto”, un accessorio che, tra l'altro nell'ottica stessa dei videogiochi non viene immediatamente concessa. Diventare “forti e potenti” anche in un Videogame necessita di tempo, fatica e impegno; molto spesso tanti giocatori – specie quelli non disposti e non capaci di spendere denaro per “vincere” – incontrano difficoltà “realmente” fustiganti che sommate al fatto che il fulcro dei videogiochi sono dei rapporti di tipo economici assolutamente identici a quelli di tutto il resto dell'economia, porta a concludere che l'Escapismo Virtuale è una categoria dei fenomeni sociali che non esiste. Quanto oggetto dell'articolo di Avent e della mia risposta è un'attività simile a molte altre con dei risvolti decisamente pratici, per nulla “ideali”: il fine dei giocatori non è diventare dei re di mondi dove vivono attraverso i loro personaggi, né i videogiochi sono costruiti davvero per sviluppare delle storie di tipo Romance (salvo particolari e famosi casi), tutto il “potere” e la “gloria” che un gamer acquisisce con le sue gesta virtuali trova una serie di reimpieghi fuori dal gioco: ogni ricompensa è un miglioramento della qualità del proprio personaggio, la quale può essere a sua volta riversata capillarmente in tutto un insieme di impieghi che portano, infine, a un guadagno che seppur esiguo è reale. 
  Questa è la situazione vera, quella più attualmente diffusa del Gaming a livello mondiale, quella che interessa il “gruppo sociale disagiato” preso in considerazione da Avent. Perciò la sua considerazione finale, è innanzitutto “sballata” e fuori luogo: Avent richiama un meccanismo dei videogiochi che sarebbe l'«adattamento della difficoltà per il giocatore in base alle abilità dei giocatori stessi»; in altri termini, nel corso delle partite il programma memorizza le azioni (e gli errori) del giocatore per poi adeguare il livello di difficoltà alle capacità del “pilota". In effetti questo algoritmo di programmazione esiste, ma non viene certo utilizzato nei MMORPG per ovvie esigenze di eguale trattamento di tutti i giocatori. Così si resta realmente perplessi quando Avent cerca di prendere questo algoritmo e di usarlo come uno “specchio”, o punto di congiunzione, tra dinamiche dei videogiochi e mondo reale, affinché soggetti intrinsecamente deboli non siano del tutto esclusi dal trovare una vita appagante e realizzata a causa delle difficoltà che incontrano nell'esistenza concreta, dalla quale e dalle quali fuggono. 
  In verità è solo un modo molto timido per segnalare la necessità di politiche diverse in campo sociale e in quello dell'impiego, e sicuramente è ancora una volta la scelta peggiore sulla lista delle brutte opzioni. Oltre al fatto che l'algoritmo non è più rappresentativo dell'attuale panorama videoludico, cercare una risposta "interna" al problema non porta ad alcuna soluzione. I videogiochi non sono quel tipo di bene-d'evasione usato dalla “plebaglia” per  rinchiudersi dentro a dei paradisi artificiali (come per esempio l'alcol, le droghe, certe passioni sportive o la frequentazione di certi locali), essi sono una branca decisamente importante del settore dell'intrattenimento e dell'estetica, muovono l'economia per milioni se non miliardi di dollari ed euro. Se volete notarlo, possiedono delle infrastrutture di livello mondiale che li rendono identici a molti altri prodotti; sono certo che sono noti a tutti piattaforme come Steam, il Microsoft Store della Xbox, quello della PlayStation e l'appena nata Facebook Gameroom. Se qualcuno volesse fare un confronto tra queste piattaforme di distribuzione online per i videogiochi e altre, dedicate a generi di più “largo” consumo presuntamente meno dannosi, come Netflix e Spotify, si accorgerà tranquillamente come i meccanismi economici di base siano praticamente gli stessi. 
  In sostanza Avent nel suo articolo ha voluto fare il moralista, ma ciò che ha tirato fuori sono solo una serie di affermazioni e di precetti scontati, superati, noiosi e ovviamente distorcenti la realtà dei fatti. È molto probabile che lui, in verità, non abbia voluto esercitare la reale critica morale al settore dei Videogame, cioè che sono QUESTI giochi a essere creati, promossi e strutturati per attrarre e coinvolgere gli utenti per un monte di ore incalcolabile. Dico QUESTI videogiochi perché come appassionato sono convinto che cambiando le filosofie aziendali e le logiche economiche si possono lo stesso produrre Videogame meravigliosi e di successo esenti dal suggerire un impatto sociale “allarmante”, ammesso che sia davvero questo il problema. Per quanto riguarda la questione della disoccupazione, in passato mi sono occupato di essa ad altri livelli e non escludo di rifarlo in futuro, ma per quanto riguarda la storia della disoccupazione e dei videogiochi, mi soddisfa l'aver potuto dimostrare che l'Escapismo Virtuale è una stronzata

Postilla molto profonda

  Sarebbe il caso che la Semiologia si prenda a carico il compito di rivedere la semantica di «Virtuale» e di «Virtuoso» unificando i loro tratti significativi affinché termini l'ambiguità ingenerata dalla loro attuale diversificazione. 
  «Virtuale» non dovrebbe essere sinonimo di «finto», «falso» o «irreale», anche perché, sotto un certo punto di vista delle concezioni grammaticali «realtà virtuale» potrebbe essere persino considerato un ossimoro. La realtà virtuale non è una cosa “inesistente”, bensì una «una realtà che esiste in virtù...» di che cosa? Di fronte a questa domanda ben venga il filosofo (meglio ancora se come Nietzsche) a dirci: «non importa in virtù di “qualcosa”, la Virtù ha la sua essenza e le sue proprietà in sé prima ancora di scegliere a cosa corrisponde – o a che cosa è per noi – una virtù». La virtù è un valore morale dell'uomo, un caposaldo che fa da perno per la tenuta dei rapporti sociali, un metro di giudizio non arbitrario del comportamento, “qualcosa” sul quale e per il quale l'uomo è disposto a impegnarsi, infine è un punto d'incontro tra le valutazioni e attraverso quest'incontro, tutto quello che nasce «in virtù di...» assume l'aspetto d'essere un patto nobile e un alto compromesso
  Questa concezione, io credo, in verità DEMISTIFICA tante diverse valutazioni capziose e arbitrarie inerenti a questioni più o meno scottanti, sebbene spesso i moralisti si accaniscono ossessivamente CONTRO la libera disposizione dell'altrui tempo e attività, e tutto ciò che è LUDUS spesso è stato ferocemente bersagliato con certe mistificazioni che sono apparse così convincenti da consolidare uno stigma che ancora oggi si portano dietro e sono difficili da dissolvere. 
  Io credo invece che considerare la nostra vita sociale come «realizzazione in virtù» di valori scelti in molti e diversi modi e condizioni, non sia per niente sbagliato. Volendo essere “relativamente moderati” è possibile affermare che le realtà virtuali dei videogiochi altro non fanno che creare una cultura, o una sottocultura: i Nerd non sono e non fanno niente di socialmente e moralmente diverso dai Punk, dai Metallari, dagli amanti del Tango, dal tifoso sportivo ecc... A livello più estremo («ogni tesi filosofica va portata fino all'estremo delle sue conclusioni», insegnano i Maestri) anche la nostra economia “Liberale”, fondata su un mutuo e pacifico scambio di beni e servizi è una costruzione «virtuosa» poiché il furto, la rapina, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo sotto ricatto o vessazione, sono principi e meccanismi di funzionamento economici come il libero mercato, la libertà d'impresa, l'equo salario, l'assistenza sociale. L'unica differenza sta nel fatto che oggi noi consideriamo i primi ingiusti e illegali (e infatti le mafie e i criminali li adottano) e i secondi quanto riteniamo essere il meglio che abbiamo per vivere. 

P.Ag, autore del blog

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